Perché Dio usa misericordia all’uomo?
Detto chiaramente, fuori dai denti, a noi, spesso pare una manifesta ingiustizia. Soprattutto, quando non siamo noi i diretti interessati (perché, quando invece lo siamo, la nostra prospettiva cambia radicalmente!).
“Chi sbaglia, paghi!” è il primo pensiero che si affaccia alla nostra mente.
Avere misericordia o, meglio, che qualcuno riceva misericordia, ci sembra sempre un modo per farla passare liscia a qualche mascalzone scansafatiche, che, marciandoci su, continuerà imperterrito, in un atteggiamento insolente ed indisponente.
In realtà, non è questo l’approccio di Dio. Forse il concetto che ci viene in soccorso è quell’esasperazione di cui parla Paolo in Colossessi 3,11 (Voi, padri, non esasperate i vostri figli) e che è ripreso dalla Seconda Lettura che la liturgia propone. Dio usa misericordia verso ogni creatura, affinché essa non soccomba sotto un dolore troppo forte (Cor 2, 7). Non ce n’è: il male fa male. Nonostante una scintillante copertina che ci attrae in modo irresistibile, esso però ci consuma dall’interno, facendoci marcire, come una mela intaccata da un verme. Dall’altro lato, tutto può parere come prima, anzi, ancora più brillante e ricco di fascino. Ma non possiamo nascondere anche a noi stessi quello che spesso nascondiamo a chi ci guarda: la morte ci abita il cuore.
Il Male, infatti, ci svuota l’anima. Possiamo assuefarcene, come accade coi vizi, che sono “cattivi abiti” che indossiamo così a lungo da non accorgerci di quanto siano laceri, consunti e portatori di negatività. Magari ci mettiamo una toppa, nell’illusione di migliorare la situazione; ma, quando la stoffa è lisa, tale escamotage risulta, sostanzialmente, del tutto inutile, quando non unicamente illusorio.
«Fratelli, se qualcuno mi ha rattristato, non ha rattristato me soltanto, ma, in parte almeno, senza esagerare, tutti voi» (2Cor 2, 5 )
dice san Paolo. È sintesi del Corpo Mistico della Chiesa, entro la quale tutti i battezzati si muovono: ciascuno ne è responsabile, della santificazione, come della dannazione. Perché se è vero che Cristo è il salvatore, ogni membro del Corpo danneggia tutto il corpo: perché se una mano va in cancrena per noncuranza di una sua ferita, l’intero Corpo avrà una mano in meno a propria disposizione. Far parte della Chiesa è consolazione, perché significa essere parte di una grande famiglia, per cui “chi crede non è mai solo” (Benedetto XVI, 24 aprile 2005), ma racchiude anche la grande responsabilità per cui ogni nostra azione si riverbera, nel bene come nel male, sul Corpo tutto. Ecco perché è fondamentale, innanzitutto nelle nostre comunità, riscoprire l’importanza di essere “misericordiosi, come il Padre” (Lc 6,27).
Dio, del resto, è consapevole della fragilità umana. Accanto alla sua ambizione alla perfezione, insita nella stessa sua tensione verso l’infinito che si manifesta anche solo nella sua inevitabile progettualità, così come nell’irrazionale protesta contro la signoria della morte sulla sua natura corporea, destinata ad un lento decadimento, l’uomo soggiace all’inconsistenza della propria volontà, alla scarsa capacità di perdurare nei propri proposito di compiere quel bene, quando pure si rende conto che solo in esso potrà trovare la felicità a cui anela. Dalle Sue mani siamo usciti: ci conosce, da quando ancora dovevamo formarci nel grembo materno, per questo, non vuole che ci lasciamo scoraggiare dalle nostre mancanze perché, accanto ad esse, si è appuntato tutte le nostre potenzialità, persino quelle che, per accidia, ancora sono rimaste inespresse e puramente utopiche.
Lo sa bene Zaccheo, che da omino pavido e ladro, si scopre uomo dalle grandi azioni e dai grandi slanci, commisurati alla proporzione del suo latrocinio. Con l’aggiunto di quel qualcosa che viene da un perdono che, “coprendo” ogni peccato, ci consente di guardare oltre, scorgendo orizzonti nuovi, a cui non ci eravamo mai potuti affacciare, perché avevamo ormai accettato, rassegnati, di rimanere schiacciati dalla mediocrità di un peccato che, lasciandoci nella comodità, non ci incoraggiava a pensare un’altra realtà possibile.
Che succede, nel Vangelo? Un pubblicano (un altro, come Matteo), al sentire dell’arrivo di questo “famoso” Gesù, nella città di Gerico, si avvicina anche lui (ma alla chetichella, per non fare incontri spiacevoli, che gli rinfaccino in malo modo la propria professione). È Gesù che lo va a cercare, dal sicomoro su cui è salito per sopperire alla propria bassezza (simbolo della propria bassezza morale): «Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua». Zaccheo non se lo fa ripetere due volte, mentre il Maestro non perde occasione di scroccare un pranzo a un altro pubblicano. Non è un caso che diverse persone rinfacceranno al Nazareno una certa propensione al cibo: è proprio a tavola, del resto, che Zaccheo si sente in dovere di rispondere a quella sconfinata fiducia, promettendo di restituire il maltolto e ricordandosi, finalmente, dei poveri.
Chi non si è trovato, quanto meno, incuriosito dalle parole di Cristo?
Da più di duemila anni le sue parole, ma, più ancora, la sua vicenda, corrono sulla bocca di tutti.
Un motivo ci sarà, se, ancora oggi, nonostante la Chiesa impregnata della sua umana fragilità, tutto ciò non ha perso il suo fascino e la sua attrattiva, tanto che, persino nel mondo occidentale, ad un ragazzo cresciuto nell’ateismo può bastare un sacrificio eucaristico visto “per caso” alla televisione per far scattare la scintilla che lo porta ad una sequela totale del Cristo.
La sollecitudine di Zaccheo che, oltre ad essere un dono, la fede è anche – forse, soprattutto – una risposta da dare. Solo quando Cristo diventa rilevante nella nostra vita, quando diventa il modello a cui si informano le nostre giornate, potremo davvero uscire dall’accidia e rinnovare, giorno dopo giorno, pur nel costante bisogno di ricevere il perdono, lo slancio di restituire a Dio la sfiducia smisurata che – quotidianamente, come il pane – ci largisce, invitandoci a “fare della nostra vita un capolavoro” (Giovanni Paolo II, 22 settembre 1985).
Rif. letture festive ambrosiane, nell’ultima domenica dopo l’Epifania, detta «del perdono», Anno C: Sir 18,11-14; Sal 102; 2Cor 2,5-11; Lc 19,1-10
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