La prima volta fu in prima media.
Ero uno scricciolo alto un metro e una mela e pesavo quanto un Puffo. Quando mi mettevo in spalla lo zaino al suo massimo carico rischiavo ogni volta di finire gambe all’aria. Su quel quadro desolante un paio di occhiali, spessi come fondi di bottiglia. Loro erano in terza media. E tutto il contrario di me. Carine, alte, slanciate, spigliate al limite dell’insolenza. Ma soprattutto quattro contro una. Non ebbi mai abbastanza coraggio da difendermi da sola, ebbi invece un’altra fortuna: compagni di classe che letteralmente seppero fare cerchio. Venni così lasciata in pace per il resto dell’anno scolastico.
La seconda volta fu alle superiori.
Ero ancora uno scricciolo, alta stavolta un metro e due mele e pesavo giusto mezzo Puffo in più. La goffaggine di chi è sempre insicuro di sé, di chi alle feste va giusto per fare da tappezzeria, cercando di mimetizzarsi con l’attaccapanni nell’angolo. Gli occhiali spessi, imprescindibili per la mia vista da talpa. Ancora una volta loro erano in tanti ed io una sola. Loro i popolari di turno, io la ranocchietta da deridere. Frasi non proprio lusinghiere, bigliettini anonimi infilati nello zaino: i più gentili mi invitavano a lasciare questo mondo in modi così fantasiosi che quasi quasi ora li rivendo ad uno sceneggiatore e sia mai che do una svolta al mio conto in banca. Non ebbi quasi nessuno a difendermi, ma avevo imparato a farlo da sola, ergendo una barriera di apparente menefreghismo granitico, che non dava loro nemmeno mezzo atomo di soddisfazione.
Il bullismo ha tante forme e altrettanti bersagli. La maggior parte delle volte, però, non è così palese da essere notato subito. Anzi, spesso si nasconde sotto le spoglie di un’amicizia che puzza di falso, di un gruppo che ti obbliga alle sue regole o ti emargina.
Uno zaino nero che rotola a terra, in sottofondo risate, applausi ed incitamenti. Qualcuno con un calcio lo spedisce poco lontano, dove lo aspettano altri piedi. Il proprietario prova a stare al gioco, ridendo a tempo coi coetanei, ma quando il palleggio ritarda di qualche secondo lui si fionda a riprendere ciò che gli appartiene. Suona la campana, il cortile si svuota, i genitori presenti se ne vanno. Lui è lì, quasi l’ultimo, che cerca di togliere la polvere da quel fagotto martoriato. Quando mi vede gli si dipinge in faccia il rosso della vergogna.
“Ma lui è nostro amico, scherzavamo.” Provano ad arrampicarsi sugli specchi i calciatori di zaini. Il karma vuole che le prime due ore le abbiano proprio con me. Sulla cattedra sono bene in mostra i cimeli dell’accaduto: uno zaino bucato, una bottiglietta di plastica quasi accartocciata e ormai vuota. Il diario, riposto in una tasca a parte, è ammaccato ma salvo. Non posso dire lo stesso del libro delle discipline e dei due quaderni: bagnati, deformati, stropicciati, rotti.
Sembrano la perfetta trasposizione di quel che non è mai visibile e che anzi è spesso nascosto sotto strati di silenzi, sotto il cappuccio di una felpa, dietro lo schermo di uno smartphone.
L’avete mai vista un’autostima accartocciata come una bottiglietta di plastica? Non serve più a nulla, tutto quel che conteneva se ne è uscito, lasciando dietro di sé solo un vuoto impossibile da colmare. Il materiale di cui è fatta gira e rigira su sé stesso, forma angoli assurdi, innaturali. È una massa informe che non si regge più in piedi; non le resta che rimanere appallottolata, sperando di non venire prima o poi schiacciata del tutto.
L’avete mai vista una percezione di sé stropicciata come un libro bagnato, rotto e deformato? Non c’è filtro Instagram che tenga, per lisciare quelle pieghe e curare quelle piaghe. Quand’anche venisse fatto asciugare e riparato, non tornerebbe mai più come prima, ma porterebbe sempre le cicatrici di quel che ha passato.
Con l’io ridotto come quei cimeli ogni mattina ci si alza con le stesse domande.
A cosa serve? A cosa servo?
Ci si sente come fogli accartocciati: inutili.
Sapete cos’è la pittura materica? È una vera e propria forma d’arte, in cui il colore viene steso grossolanamente, spesso senza pennello ma con materiali alternativi. Uno dei più usati a scuola è proprio un foglio di carta appallottolato: si intinge di colore e lo si picchietta sulla tela, creando giochi di luce, sfumature e paesaggi impareggiabili. In altri casi è proprio il foglio stesso che, prima stretto tra le mani e poi steso sulla tela, diventa esso stesso opera d’arte: regala un effetto tattile e tridimensionale che non ha eguali, somigliando ora a roccia granitica, ora ad un velo impalpabile che danza col vento, ora ad increspature su limpida acqua.
E qualcuno aveva pure avuto il fegato di definirlo inutile.
Dedicato ad ogni foglietto accartocciato.