Perché il sapere e il sapore amano passeggiare in compagnia. Non solo per fortuita rima letteraria, ma per quella radice latina che costringe il sapere a congiungersi strettamente con il sàpere, cioè col provare gusto. Il sapere e il sapore, ossia l’arte del vivere. Quell’arte silenziosa, educata e nobile che le nostre nonne tessevano all’ombra del lume nelle silenziose sere in attesa di mariti lontani. A ricordarci che senza sapore non esiste vero sapere.

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Settembre, tempo di ri-partenze. Fra poco ce lo ricorderà la celebre transumanza, la liturgica festa del Matteo apostolo, quelle gocce di pioggia settembrina – cantate dallo Stern scrittore – che aromatizzano il bosco avvolgendolo nelle prime nebbie d’autunno. Ancora qualche giorno e la natura si sbizzarrirà per l’ennesima volta. Ri-partirà pure l’uomo, questa vecchia anticaglia di Dio, arrugginita ma addomesticabile col sapore della vita. Nei cruscotti delle macchine e sugli zaini degli studenti, nelle stoviglie delle massaie e nei trattori dei primi aratori, nei registri dei docenti e nelle borse dei politici, nei breviari dei prelati e nelle sacche degli sportivi… c’incastonerei una foto. Un volto che, se ne vantassi l’onore, raffinerei del Premio Nobel per lo Sport. Una foto, un volto, una frase capace di custodire silenziosa la vera arte di vivere. Lui è Alex Schwarz da Vipiteno, baluardo estremo dell’Italia che s’approssima al confine. Muscoli affilati, resistenza nella testa e quella passione innata che ogni primo mattino lo butta giù dal letto e lo fa marciare. Per chilometri e chilometri, lungo quel filo nascosto che lambisce vecchie fontane, dogane di Stato e vento di vallate. A Pechino ha strappato il bis dopo la storia di Atene: oro nella 50 km di marcia. Con il merito di aver vinto partendo da una situazione svantaggiata: era il favorito. Un faticatore silenzioso, una mente concentrata, un cuore ordinato. Un atleta che con eleganza nobile ammaestra il calcio domenicale ad uscire dal mondo viziato e puerile in cui s’è infossato. Dopo 50 km di massacrante adescamento alla medaglia – quando ad un calciatore sarebbe bastato un filo d’erba per farlo stramazzare a terra simulando fatiche inesistenti e rassomigliandolo più alle modelle di Piazza di Spagna che agli eroi dell’antica Grecia – trova il tempo e raccoglie la concentrazione per pubblicizzare la sua filosofia di vita, la sua tabella di marcia, il suo elisir per l’oro olimpico. Ai cronisti che gli chiedevano conto della sua felicità rispose: “Non sono felice perché ho vinto. Ma ho vinto perché sono felice”. Non è un gioco di parole, è un segreto modo di leggere la vita. Tutti vogliono vincere per essere felici. Correndo il rischio di non diventarlo. O di bruciarsi in compagnia di quel gatto e quella volpe che furono la sfortunata coincidenza del Pinocchio di Collodi. In pochi cercano la felicità come allenamento per la vittoria. Eppure oggi scopriamo che l’oro di Schwarz non è nato nei laboratori frequentati dagli sportivi coi tatuaggi e le veline come personal trainer, ma tra le mura di casa sua. Dove avrà appreso felicità nella dolcezza dei gesti, nell’amore affettuoso della sua Carolina pattinatrice, nell’ordine dato ai sentimenti. Nell’accogliere con stupore il quotidiano vivere fino a farlo diventare straordinario. Perché l’esistenza è un’equazione bellissima nella quale il sapere sta al sapore come lo straordinario sta all’ordinario: necessitano di una giusta posizione. Pure Maria di Nazareth, Cuore ordinato per eccellenza, intendeva questo segreto: “Maria custodiva tutte queste cose nel suo cuore meditandole in segreto”. Meditazione. Salvaguardia. Protezione.

A Olimpiadi serrate gli italiani se ne stanno imprigionati nelle palestre per emulare le gesta eroiche degli allori: sudati, nervosi e tristi. Partenza sbagliata. Prima costruiamo la felicità: l’oro nascerà spontaneo. Perché lo sport che merita ancora una citazione è quello che insegna ad allenarsi alla felicità per addentrarsi nella vittoria.
Senza doping. A testa alta. Con un sorriso invitante.

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