A colpirmi fu la ferocia della sua concentrazione. Mancavano più di due settimane all’appuntamento clou della sua stagione: il Tour de France. Eppure Vincenzo Nibali da Messina – il soggetto di questa frase – saliva sui tornanti del Passo San Pellegrino tradendo un’applicazione ch’era pari alla leggerezza dei suoi movimenti e direttamente proporzionale alla smisuratezza del suo sogno: quello di vincere la maglia gialla. Nessun atleta di qualunque sport ha la certezza di diventare un giorno campione: tanti di loro, però, sognano almeno una volta di poterlo diventare. Qualcuno di questi ultimi, poi, campione lo diventa per davvero. Oggi Vincenzo si veste di giallo, sedici anni dopo l’epopea sportiva di Marco Pantani. Il mondo s’inchina, i francesi rosicano (d’altronde come farebbero ad essere tali senza rosicare per noi cugini), il ciclismo sembra riprendere vita e freschezza. L’Equipe – la bibbia dello sport francese – per lui ha coniato l’aggettivo più bello, il più italiano: “Dantesque”. Dantesco: l’Inferno, il Purgatorio, il Paradiso. Poi le stelle: quelle che chiudono le tre cantiche.
Vincere il Tour è una cosa da far girare la testa. A qualcuno – chi non ce la fa – capita che gli girino pure le scatole. A Vincenzo, invece, sembra che nulla gli sia cambiato. Tant’è che, forse, è questo il vero capolavoro che dovremmo raccontare: l’epopea di un ragazzo non ancora trentenne che, nel mezzo di una bufera di gloria e di congratulazioni anzitempo, aiuta l’Italia a tenere i piedi per terra. Come? Non dovremmo essere noi – uomini di misura e di pacatezza – a dirgli: “ragazzo, piedi per terra”, “non montarti la testa”, “un passo alla volta”? Invece no: stavolta è il vincitore a dover fare ripetizione dell’alfabeto primordiale, quello che ha reso grandi i nostri antenati: moderazione, calma, pacatezza e un passo alla volta. Ne ha fatto le spese addirittura Matteo Renzi che, sull’onda dell’euforia, dopo due settimane in cui il mondo ce lo invidiava, s’è accorto di lui e l’ha invitato a Palazzo Chigi. Risposta? «Ho risposto che potrò confermare la mia presenza solo dopo aver vinto e solo se vincerò» – ha dichiarato Nibali. Ne hanno fatto le spese grappoli di giornalisti, tutti tesi ad avviarne il processo di beatificazione sportiva: «Sono sempre il nipote di Vincenzo Nibali che negli anni ’30 andò in Australia a cercare fortuna per poi tornare a Messina e costruire una grande casa per tutta la nostra famiglia». Ne ha subito il contraccolpo chi tentava d’intravedere i margini di una possibile spettacolarizzazione del campione: nulla di nulla, nemmeno un gesto sopra le righe. Semplicemente normale. Con il “di più” di quel talento che si è trovato addosso non come provvista bensì come promessa: le promesse, però, per realizzarsi hanno bisogno di manovalanza perchè il talento, senza concentrazione, è nulla.
Da Messina venne anche Antonello – Antonello da Messina, per l’appunto – al quale riuscì la difficile arte di fondere assieme luce, atmosfera e la cura del dettaglio ch’era tipica dei fiamminghi. Certi nomi sono pieni dell’esistenza di chi li ha portati prima di noi. Vincenzo somiglia ad Antonello: sembra essergli riuscita l’ardua sfida di fondere la gloria con la normalità. Curando i piccoli dettagli, quelli che fanno di una semplice opera d’arte un capolavoro che sfida la storia. Rimane un solo cruccio: quando la normalità diventa un’eccezione, che tempo farà domani? Antoine de Saint-Exupéry – lo scrittore/aviatore francese del quale ricorre in settimana il 70^ della scomparsa – s’era convinto che per risvegliare l’uomo occorreva ricordargli un segreto: «Nella vita non ci sono soluzioni. Ci sono delle forze in cammino: bisogna crearle, e le soluzioni vengono dopo». Chapeau, Nibalì: è proprio il caso di dirlo oggi. Dantesco!
Avvenire, 27 luglio 2014
Il Mattino di Padova, 27 luglio 2014