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È accaduto d’estate, la scorsa estate: mancavano quattro mesi esatti al mio compleanno, il quarantesimo. In piena notte, mi è apparsa nel sogno la nonna: «Preparati – mi dice – sta venendo a bussarti». Da vent’anni lei arriva sempre un attimo-prima (di tutto), a mo’ di apripista. Quando s’avvicina, si fa riconoscere dal suo modo di sorridere: ha il volto bellissimo della Madonna che prego sin da bambino. E’ uguale-identica all’ultima volta che l’ho salutata prima che morisse, alla prima volta che l’ho vista appena nato: «Sei pronto, Marco?» mi chiede. E si siede accanto a me, sopra il letto, accarezzandomi la testa. Mi rifletto nei suoi occhi fanciulli: trentanove anni e mezzo di storia mi scorrono davanti come una pellicola cinematografica in accelerazione. Dietro alla nonna, c’è Lui. Lo guardo e gli dico: «Perché no? Andiamo! Mi hai dato infinitamente di più di quello che io manco sono riuscito ad immaginarmi». Lui mi stringe forte al petto: immagino fosse il Paradiso. «Regalati un ultimo gesto, poi andiamo via assieme» mi dice.
Mi sono alzato, ho guardato in volto la vita, dedicandole un inchino: «Grazie, vita, sei stata la mia musa ispiratrice». Ci siamo alzati. La nonna, davanti come alle processioni del mio paese, intonava l’Alleluja: in fondo alla strada, in attesa, tutti i defunti di casa mia. Con gli altri tre nonni che mi venivano incontro. È stato un sogno magnifico!
Nessun sogno, però, è mai solo un sogno. I sogni sono segni, segnali. Quella mattina, al risveglio, ho preso carta, penna. C’era un’ultima domanda alla quale volevo rispondere: “Chi sei stato tu per me, Diommio, in questa vita quaggiù?” Se il sogno dovesse un giorno prendere forma, vorrei che queste pagine fossero la mia risposta. Questo libro – Il balzo maldestro (San Paolo 2020) – è nato così, di petto e di getto: vedendo scorrermi davanti il mio paese con le sue tradizioni, le donne, gli uomini che lo popolano, la scuola, il mio Crocifisso. Le mie amatissime maestre. Fra poco inizierà il terzo viaggio con Papa Francesco, un viaggio nel Credo (dal 17 febbraio, per nove lunedì, su TV2000). Era giusto, prima di chiederlo ad altri, chiederlo a me medesimo: “Tu, Marco, perché credi?” L’ho fatto assieme al mio più grande amico: si chiama Antoine (de Saint-Exupèry). Nella stagione delle scuole superiori un prof ha fatto di tutto per farci odiare a vicenda: nel tempo, ha ottenuto l’effetto contrario. Un buco nell’acqua, l’ennesimo: ci siamo innamorati pazzamente a vicenda.
Il giorno del mio compleanno mi sono riletto tutto il libro da solo: le notti usate per scriverlo, sono state il regalo di compleanno a me stesso. Ai miei occhi ne è valsa la pena. «Adesso, nonna, possiamo partire. È tutto pronto!».
Ti aspetto.

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 (dal preludio del libro) – Quante volte, durante gli anni del liceo classico, ho sentito pronunciare il suo nome. Mi infastidiva per il semplice fatto di portarsi cucito addosso l’accento d’oltralpe, il piglio francese: Antoine, pronunciato con il mento all’insù, bocca a culo di gallina. Con l’aggravante di un cognome composito che somigliava tanto al codazzo dell’arrogante di turno che passeggia in centro città, tutto intento a farsi (ri)mirare: de Saint-Exupéry. Il professore di lettere, in classe, usava la sua fama per dividere il mondo in somari e cavalli di razza, capre e aquile, gregari e fuoriclasse: “Si vede distante mille miglia che tu non hai letto Il piccolo principe” era la sua filastrocca. Per lui, innamorato della letteratura, il mondo non l’aveva diviso la nascita del Cristo a Betlemme ma, per l’appunto, il principe: quelli che avevano letto la favola di Antoine e quelli che non l’avevano mai letta. Questi ultimi, vi appartengo, nella graduatoria del suo cuore partivano sfavoriti, quasi menomati nel pensiero: non avevano letto Il piccolo principe.
Lui diceva di notarlo da distante.
Antoine de Saint-Exupéry: mento in su, bocca culo di gallina, erre moscia.
Il giorno dell’esame di maturità, mi sono seduto davanti alla corte marziale della commissione tenendo sottobraccio l’appassionata rilettura di tutte le opere dello scrittore italiano Giovanni Verga, il mio amico-di-penna. La prima volta che lessi I Malavoglia, piansi come un bambino. Barche sull’acqua, tegole al sole, la Provvidenza: pareva la storia della gente di casa mia che, ancor oggi, se ne sta aggrappata alla collina, tutta tronfia nell’abitare laddove la sorte li ha fatti venire al mondo. Come ostriche sullo scoglio, come i Malavoglia che eran «tutti buona e brava gente di mare, proprio all’opposto di quel che sembrava dal nomignolo, come dev’essere» (I Malavoglia). Di sbieco, il professore di lettere mi indagava: sono uno di quelli che non si spegne nella tempesta. Anzi, mi accendo appena mi dai le chiavi per la sopravvivenza. Quando mi alzai per uscire dall’aula, gettai lo sguardo laddove per cinque anni avrei voluto scagliarlo, non fosse stato per il monito della nonna che mi rintronava ogni qualvolta il nervoso mi faceva andar fuori giri: “Ricordati che lui ha sempre il coltello dalla parte del manico”.
Il professore, mai sazio, anche quel giorno mi sfidò: “Comunque si vede da distante che non hai letto Il piccolo principe”. Era conseguenza della vivacità della mia discussione d’esame. Per la scuola, dunque, ero considerato maturo. Ritenni maturo il tempo di confidargli ciò che mi stava a cuore: “Grazie a te, mai e poi mai leggerò quella maledetta storia. Orgoglioso di non essere dei tuoi!”
Uscii dall’aula.
Fuori dalla scuola, trovai l’estate ad attendermi: il sole di luglio, il canto dei grilli, le animatrici abbronzate. Quell’estate, incollato al televisore, mi inzuppai di dirette RAI dalla Francia, il paese di Antoine. Sfiga: ancora erre moscia, Pirenei, roseti. Una doppia sfiga: Italia-Francia, mondiali 1998. Il tiro di Roberto Baggio che esce «di tanto così», il frastuono della traversa colpita da Di Biagio, i cugini che volano sempre più su. Fino al titolo mondiale: il Brasile è ko.
Fino al 27 luglio 1998. Piove che Dio la manda al Tour de France. Quando mancano 47 km al traguardo delle Deux Alpes, «Ecco, parte Pantani!». È folle, il mio campione: manca tanta salita, manca tanta discesa, manca un’eternità. Ma il Pirata può tutto: dopo il Giro d’Italia vinto a giugno, a Parigi si alza il tricolore e risuona l’Inno di Mameli: dopo 33 anni, la Grande Boucle torna in Italia. Pantani vince il Tour: chissà se aveva letto Il piccolo principe per riuscire a vincere!
Che il tonfo del legno della traversa fosse dipeso dal fatto che Di Biagio non l’aveva letto? Mistero dello sport, del cervello del mio professore di lettere.
Io, di sicuro, non l’avevo letto. Però, a fidarmi della votazione nel tabellone, per la scuola ero maturo lo stesso. Anche se il prof continuava a sostenere che si notava distante un miglio che io quella favola non l’avevo mai letta.
Che non l’avrei mai letta: glielo avevo confermato.
Estate 1998, quella della maturità.
«Chi disprezza, un giorno compra», mi diceva sempre la nonna.

(da M. Pozza, Il balzo maldestro, San Paolo 2020)

Vi aspettiamo in tutte le librerie!
don Marco Pozza (e Antoine)

anitra

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