Con la prima lettura, siamo portati sul monte Oreb, in compagnia di Mosè, salitovi da oltre un mese, per ricevere le due tavole della Legge “scritte dal dito di Dio”. Mentre però accade questo, mentre Mosè s’intrattiene, sul monte, col suo Dio, il popolo è alle pendici di esso, accampato. Non vede altro che la tempesta. Una modalità di agire che risulta forse oscura, distante, imperscrutabile, non facilmente comprensibile: il popolo, infatti, sotto al monte, non può sapere cosa accada in cima e, forse, se ne sente come escluso. Sta di fatto che è Dio stesso che rivela a Mosè cosa, nel frattempo, avvenga. Di cosa si tratta? Di idolatria: hanno fuso i propri gioielli in oro, ne hanno fatto un vitello e si sono prostrati a lui, come se fosse un dio, nonostante, con il salmista, si può ben affermare (di ciò, come di simili opere) che
Hanno bocca e non parlano,
hanno occhi e non vedono,
hanno orecchi e non odono,
hanno narici e non odorano.
Hanno mani e non palpano,
hanno piedi e non camminano;
dalla gola non emettono suoni (Salmo 115, 5-7)
Perché sono opera delle mani dell’uomo: da lui sono fatti, da lui dipendono; eppure, si comportano come se potessero avere potere su di lui, come se potessero essere una guida da seguire. Ed è cosa che accende l’ira di Dio, tanto da dire:
«Ho osservato questo popolo: ecco, è un popolo dalla dura cervice. Ora lascia che la mia ira si accenda contro di loro e li divori. Di te invece farò una grande nazione» (Es 32, 10)
A colpire è la reazione di Mosè. Dio stesso lo aveva scagionato (del resto, come poteva essere colpevole, se era rimasto, per tutto quel tempo, sul monte, con Dio?), sottraendolo ad ogni castigo. “Pericolo scampato” è stata forse la prima reazione anche di Mosè. Ma, se andiamo avanti a leggere, comprendiamo che non è stata l’unica. Perché non si isola dal proprio popolo, non li abbandona proprio nel momento del bisogno. Si prodiga in un’accorata preghiera di intercessione in loro favore. Se, domenica scorsa, meditando sul Decalogo, si poteva vedere come la sua osservanza, per non essere vuota di senso, richieda d’essere inserita in una relazione, ora ne vediamo la prospettiva, in un certo senso ribaltata. Come evidenzia san Paolo, l’attributo specifico di Dio è la fedeltà, per cui, “se noi manchiamo di fede, egli […] rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso” (2Tim 2, 13): ecco perché, invece di negare o minimizzare la colpa, Mosè, saggiamente, ricorre, anche in questo caso alla memoria, rinnovandola, stavolta a Dio. La domanda che dunque Gli pone è: come puoi rinnegare quello che hai fatto, così che gli Egiziani siano spinti a pensare che Dio stesso abbia teso un tranello agli Israeliti, chiamandoli dall’Egitto in cui erano schiavi, per condurli a morire nel deserto?
Se siete curiosi di sapere se tale intercessione andò a buon fine, posso anticipare che funzionò: chi ebbe la peggio, furono le tavole della Legge, gettate a terra con ira da Mosè, al vedere con i propri occhi cosa stesse accadendo all’accampamento. Seguì, quindi, una nuova salita sul monte ed una riscrittura delle Tavole.
Questa terza domenica è, però, nota come “Domenica di Abramo”: nel Vangelo, infatti, protagonista assoluto è il patriarca venuto dalla terra, ancor oggi martoriata, dell’attuale Iraq.
Nel capitolo ottavo del Vangelo di Giovanni, ci troviamo di fronte ad un intenso dialogo tra Gesù ed i giudei che avevano creduto in lui. Quest’ultima annotazione non è né insensata né secondaria. Sottolinea che non si tratta di uditori occasionali, oppure di persone inviate per indurre Cristo in errore (sappiamo bene, infatti, che dall’inizio della Sua predicazione, molti furono infastiditi, tra cui, scribi, farisei e sadducei). Si tratta, insomma, di persone che lo avevano seguito: con simpatia, con ammirazione, magari con curiosità, ma non con malizia o secondi fini (o, quanto meno, nulla, nel testo, ci porta a pensarlo). Persone a cui Cristo, volendo far compiere loro un salto di qualità, inizia un discorso impegnativo, profondo, per certi versi, inquietante (di quell’inquietudine che non fa stare tranquilli, perché sconvolge il “già noto” della nostra routine).
Il primo concetto che Cristo va a toccare è la Verità. Verità è – diventa – sinonimo di Dio stesso già per gli ebrei, dal momento che Dio è, per antonomasia, “colui che è fedele” e la cui parola ha il potere di far realizzare ciò che pronuncia (cfr. Genesi 1). In Cristo, la Parola (Logos) si è fatta carne: è parola vera, che contiene la verità stessa di Dio; per questo, essere discepoli di Cristo non è semplicemente seguire un maestro, ma incontrare la Verità. Cristo è pienamente consapevole dell’importanza e del peso specifico di frasi del genere: sono fondamentalmente due le accuse mosse a Cristo, che lo condurranno alla Croce: farsi Dio (bestemmia) e darci se stesso da mangiare, inducendo, quindi, all’antropofagia.
Mettendo in relazione la Verità con la libertà ed insinuando che i suoi interlocutori non siano liberi, in sostanza mette in discussione la storia d’Israele e il ruolo dei patriarchi, nel solco di un legame con la divinità che non ha eguali, tra gli altri popoli conosciuti. In questo modo, si spiega la reazione tanto piccata dei giudei.
Cristo, però non è venuto ad abolire la Legge (cfr. Mt 5, 18): non è il ruolo dei patriarchi, non è l’importanza di Abramo che vuole mettere in discussione, quanto, piuttosto, l’importanza di combattere Satana per seguire la via del Bene, che ci conduce, non solo alla vera libertà, ma, anche, alla vera gioia.
Si offendono, i giudei, al sentirsi dire che hanno “per padre il diavolo” e senz’altro non si tratta di un complimento. Ciò consente una nota: in questo brano vediamo il vero Gesù. Cioè: un quadro completo di Cristo, coi dettagli di chiaroscuro che, assenti nella rappresentazione, a volte macchiettistica, con cui è dipinto, riescono a renderGli quello spessore e quella profondità, altrimenti del tutto assenti. Non siamo di fronte a un personaggio di melassa, tutt’altro: il Signore non disdegna un aspro scontro intellettuale, non si tira indietro di fronte alle obiezioni, intrattenendo una serrata disputa teologica con i propri discepoli; con ciò, dimostra di non accontentarsi di un principio di auctoritas, nella trasmissione della fede, preferendone la ragionevolezza (elementi che permette all’uomo, parlando coi propri simili, di capire la prospettiva dell’altro). Eppure, per quale motivo considerarlo una mancanza di carità? È proprio dell’amore sentirsi coinvolti ed affrontare il rischio di essere allontanati, pur di mantenere i propri sentimenti nell’autenticità.
«Se uno osserva la mia parola, non vedrà la morte in eterno» (Gv 8,51)
In questa frase, Cristo condensa l’essenza stessa del cristianesimo, di fronte alla quale, anche i dogmi di fede, impallidiscono e vita sacramentale rischia di diventare solo una “tradizione di famiglia”. La domanda “Credi alla Resurrezione dei morti?”, per un cristiano, non è accessoria: è imprescindibile. È il fulcro stesso della nostra fede. Perché “se non esiste risurrezione dai morti, neanche Cristo è risuscitato! Ma se Cristo non è risuscitato, allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la vostra fede” (cfr. 1Cor 15, 13-14). Vediamo la morte, la sentiamo, ne sperimentiamo gli effetti ed abbiamo la nostalgia dei cari che ci hanno preceduto, ma siamo chiamato a trans-guardare, cioè guardare oltre la mano e, con gli occhi fissi in Cristo, vedere quella resurrezione della carne, di cui poco sappiamo, ma che alimenta la nostra speranza che, con Cristo, anche la morte sia sconfitta, perché, in Cristo, tutto assume significato (anche quello che sfugge alla nostra comprensione), in virtù del sacrificio della Croce.
«In verità, in verità io vi dico: prima che Abramo fosse, Io Sono». Allora raccolsero delle pietre per gettarle contro di lui; ma Gesù si nascose e uscì dal tempio. (Gv 8,58-59)
Se, in precedenza, aveva parlato per metafore, con parole magari aspre, ma ancora sopportabili, con l’ultima dichiarazione, il Signore raggiunge il culmine estremo. Io-Sono è il nome di Dio, il nome impronunciabile, per il rispetto che Gli è dovuto. Non solo dice di essere la Verità, ma, addirittura, si dice Dio. Che aspettare ancora? È una bestemmia, non c’è altra definizione, per qualunque ebreo osservante.
Non solo. Questo è un punto nodale anche rispetto all’ateismo (o presunto tale). Il proprium del cristianesimo non è nell’insegnamento di Cristo (lui, per primo, dice espressamente di rifarsi alla Legge e di non essere venuto per abolirla), né nella sua condotta morale, così come neppure nella sua morte per martirio. Perché, senz’altro, ognuno di questi elementi può essere riscontrato in altri eminenti personaggi.
Cristo, vero Dio e vero uomo, muore in croce, per la nostra salvezza, aprendoci una Via, oltre la morte: alla luce di questo, avvengono l’incontro con la Sua persona (umana e divina) e con il Suo insegnamento.
Questo ci pone di fronte ad una scelta: o è Dio, come afferma, oppure – se è solo un uomo – si tratta di un esaltato che si crede Dio. Non c’è altra scelta. E, nella seconda alternativa, è più che comprensibile iniziare a raccogliere pietre.
Riferimento: letture festive ambrosiane, nella III Domenica di Quaresima (di Abramo), anno B
Fonte: Parole Nuove, don Raffaello Ciccone e Teresa Ciccolini
Fonte immagine: faithmag