È peggio rubare a chi ha tanto o a chi poco? Domanda il profeta Natan al re Davide, suscitandone l’immediata reazione indignata.
Dietro la metafora, però, c’è una realtà che brucia, che il governante, in quella risposta “di pancia”, sembra quasi aver dimenticato. Il viandante ladro è lui, il ricco possono essere i suoi alti funzionari e dignitari, il povero è Uria l’Ittita, che ha mandato a morire in battaglia per sedurne l’unica moglie. Prima che insorgano, con senso storico, è opportuno sottolineare che, allora, era ben tollerata la poligamia, soprattutto tra i dignitari di corte: ecco perché, in quel contesto culturale, era possibile paragonare una donna alla pecora di un povero oppure ad una appartenente ad un grosso gregge.
La prima lettura ci dà molto materiale su cui riflettere. Innanzitutto, l’indignazione del re Davide, che gli fa dire, che lo porta a dire, con rabbia: «Per la vita del Signore, chi ha fatto questo è degno di morte. Pagherà quattro volte il valore della pecora, per aver fatto una tal cosa e non averla evitata». Così ha commentato, incapace di vedere sé, all’interno della metafora. Anche noi, spesso, facciamo così. Vediamo nell’atteggiamento degli altri tutto il fastidio del mondo: ne percepiamo l’insensatezza, la pusillanimità, la scarsità. Tuttavia, quando a noi capita di comportarci allo stesso modo, accampiamo scuse, cerchiamo spiegazioni e giustificazioni per poter affermare che, nel nostro caso, si è trattato dell’eccezione che conferma la regola. Noi siamo sempre un’eccezione. Nel nostro caso, l’eccezione è dovuta e la mancanza scusabile. Sono sempre gli altri ad essere trovati mancanti. Noi, mai.
È spirito di sopravvivenza, che convive con noi e plasma il nostro essere umani. È per questo che serve Natan, con la sua profezia e la sua retorica. Serve qualcuno che presti servizio alla verità, a costo di spiattellarcela in faccia, con mala grazia. Purché possiamo, però riceverla, così da guardarla in faccia e poterci fare i conti, senza evitarla per sempre. «Tu non morirai», gli dice, ma non dice che il male compiuto potrà rimanere senza conseguenze. Ciò non è possibile, così come non è possibile che un vaso di cristallo, possa “tornare come prima” dopo una rovinosa caduta. Nessuno si illuderebbe di ciò. Può il peccato essere perdonato? Sì. Dio può farlo. E, se ci mettiamo alla scuola di Dio, anche a noi può essere possibile. Può il peccato essere senza conseguenze? No, non può, perché ogni peccato rimane un’offesa, più o meno grave, alla relazione con Dio, che rimane pur sempre fedele. Perché non può tradire se stesso.
È in seguito a ciò, che nella Bibbia sono composti i più bei salmi penitenziali. Ecco perché perfino il peccato giova, una volta che si è acquisito il coraggio di guardarlo in faccia, senza scusanti, senza giustificazioni, senza infiocchettamenti. La verità, a volte, richiede una certa dose di “ruvidità”, per poterci consentire di affrontarlo e superarlo, in un cammino di progressivamente, tramite la lotta contro i nostri difetti più incrostati.
Noi però abbiamo questo tesoro in vasi di creta, affinché appaia che questa straordinaria potenza appartiene a Dio, e non viene da noi. In tutto, infatti, siamo tribolati, ma non schiacciati; siamo sconvolti, ma non disperati; perseguitati, ma non abbandonati; colpiti, ma non uccisi, portando sempre e dovunque nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo. (2 Cor 4, 7-11)
Nelle parole dell’Apostolo, possiamo vedere realizzarsi lo scontro tra la misericordia di Dio, che consegna l’annuncio della propria gloria, in mani inevitabilmente indegne. Dio non sceglie i più capaci, del resto, ma rende capaci quelli che sceglie. Perché nessuno potrebbe mai avere l’ardire di ergersi a modello. Ciascuno di noi, quando chiude gli occhi la sera, in un lampo d’onestà, sa che non finirebbe più d’enumerare le proprie debolezze, le proprie inadempienze, le proprie idiosincrasie, le proprie piccolezze, le proprie pusillanimità, le proprie omissioni.
La consapevolezza del proprio essere “vaso di creta” (vaso non nobile, quindi, ma, comunque, virtuoso, secondo il concetto greco del termine, se utile allo scopo per cui è stato fabbricato) non è per lui motivo di smarrimento o confusione, nel momento in cui essa è accompagnata da una altrettanto salda certezza che in quel vaso inadeguato è contenuto un tesoro, prezioso, anzi, di più: di inestimabile valore. Dio stesso, per amore dell’uomo, non si scandalizza di essere contenuto e trasportato per il mondo da mani e bocche inadeguate, di soggetti inadeguati.
Il Vangelo di Marco ci propone un’immagine molto forte, che ce lo ricorda. Gesù si trova a Cafarnao, come accade spesso. Non fa a tempo ad entrare in una casa (quella di Pietro?) che subito si crea ressa intorno a lui, tutti vogliono entrare. C’è talmente tanta ressa, che non riesce a passare dalle porte. Una situazione per cui quest’oggi, probabilmente, interverrebbe la forza pubblica, non solo per l’assembramento, ma anche per la palese violazione della legge 626, in fatto di garanzia delle uscite di sicurezza.
Ebbene, in questo contesto, qualcuno non ci sta ad essere “tagliato fuori”: un paralitico ed i suoi amici. È bello pensare a queste quattro persone come “strumenti” per Cristo, per il paralitico, per il miracolo che avverrà. Come sempre accade, infatti, Cristo non compie mai un miracolo, prima di accertarsi della piena collaborazione dell’uomo. Che non sarebbe stata possibile, senza il concreto ausilio di questi quattro “angeli custodi”, che sono riusciti a trovare spazio, dove lo spazio non c’era. “Spazio finito a livello suolo? Rimane lo spazio aereo!” devono aver pensato. E così è stato. Si sono ricavati un pertugio nel tetto, rimuovendo alcune fascine, così da consentire il passaggio dell’amico immobilizzato, con la propria portantina.
La scena avrà probabilmente suscitato anche un certo scalpore: vedere un uomo calato dal tetto, in corrispondenza del Cristo intento a predicare, non può certo lasciare indifferenti.
«Ti sono perdonati i tuoi peccati». Cristo, con questa frase, non sconvolge solo gli astanti, ma anche noi. Ok, ora quest’uomo cammina, ma che c’entra il peccato? Ci viene da pensare. Ormai, non abbiamo più la stessa mentalità ebraica.
Eppure, ci sono tanti tipi di peccati: ogni colpa lascia conseguenze e non tutte le conseguenze sono dirette. È nella disobbedienza originale che risiede la rottura dell’armonia tra l’uomo e Dio, che ha dato origine ad ogni male, compreso quel dolore innocente, di cui fatichiamo ad accettare la presenza sulla terra e accanto. Perché, con la sua silenziosa forza, ricorda a quell’ammasso d’orgoglio che ci riempie il cuore che non siamo invincibili, che ciascuno di noi ha le proprie fragilità, immancabilmente presenti, anche se facciamo di tutto per nasconderle agli occhi nostri, prima ancora che altrui.
Rif. letture festive ambrosiane, nella IX Domenica dopo Pentecoste (2Sam 12,1-13;2Cor 4,5b-14;Mc 2,1-12)
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