1033114Quando si parla di abuso, nella mente si materializzano alcol, droga, eventualmente tabacco, per i più catastrofici il collegamento arriva direttamente alle stragi del sabato e all’imprudenza di mettersi al volante quando non si è in condizione di garantire attenzione e lucidità, altri arriveranno poi a pensare agli abusi più atroci, come quelli – violenti o psicologici – nei confronti dei soggetti più deboli.

In un attimo di onestà, ci rendiamo conto che, almeno una volta nella nostra vita, tutti abbiamo “mollato la presa”, esagerato un po’. E se qualcuno ancora si crede esente, dovrà ricredersi se andiamo a scandagliare in profondità cosa significhi la parola abuso.

L’abuso è spesso  visto in relazione ad un pericolo futuro, legato a un comportamento smodato e pericoloso, quale appunto l’assunzione di stupefacenti oppure di alcoolici prima di mettersi alla guida.

Eppure, il vino è consigliato ai pasti, alcuni lo considerano addirittura un aiuto per il funzionamento cardiaco. Del resto, anche il cibo è  più che necessario alla vita dell’uomo, eppure il suo abuso può essere molto pericoloso per la salute, causando costrizioni a carico dei vasi sanguigni.

Il lavoro nobilita l’uomo – o così si dice – e senza dubbio è un buon antidoto alla pigrizia e alla nullafacenza. Ma quando diventa unica ragione di vita e fa perdere contatto con il resto della realtà, non è forse anch’esso una dipendenza?

 

Ultimamente, sta dilagando sempre più la piaga della dipendenza nei confronti del gioco d’azzardo. Pericolo noto da sempre, affrontato anche in grandi romanzi del passato, ma mai così attuale. In epoca di crisi, pare che l’ultima spiaggia del cittadino, bistrattato dal governo e tartassato con sempre nuove imposte, sia quella di affidarsi alla Dea Bendata. O, meglio, a uno Stato biscazziere che non fa che, subdolamente, organizzare l’ennesima truffa incentivando il gioco, in un meccanismo perverso attraverso il quale, spingendo sempre più gente a giocare e alzando il montepremi, non fa che aumentare gli introiti nelle tasche dello Stato, che ha, sul gioco d’azzardo, sugli alcolici e sulle sigarette, oltre al monopolio, una buona fetta di guadagni garantiti. Insomma, una garanzia di guadagno esclusivo, sulla pelle di giocatori e fumatori incalliti…

Che tutela si può chiedere ad uno stato-biscazziere che ti induce a percorrere una strada che ti porta alla schiavitù? Niente di nuovo nel dire che a chi governa fa solo comodo poter avere tanti servi accomodanti e poche (il meno possibile) teste pensanti.

Non è finita. « Nessuno mi fa fare qualcosa che non voglio fare. È una mia decisione. Quindi il mio più grande diavolo sono io. Sono il mio miglior amico o il mio peggior nemico» ebbe a dire Whitney Houston, di se stessa. Non è forse vero questo per ognuno di noi? Per quanto ci siano influenze esterne e pressioni più o meno forti (famiglia, amici, conoscenti, media…), è responsabilità di ciascuno ogni scelta che compie. E anche non scegliere è già una scelta. Ogni aspetto della nostra vita può essere motivo di ricchezza e di umana crescita, ma non in modo automatico: dipende dall’approccio che noi abbiamo ad esso, come lo viviamo. Se nella libertà o nella dipendenza.

Chiedere aiuto è lecito, ma se diventa un’abitudine, il rischio è che imbrigli la nostra autonomia, la nostra indipendenza, la nostra capacità di metterci in gioco in prima persona, anche in situazioni nuove. Del resto, anche dare aiuto, nell’illusorio altruismo di cui potremmo crogiolarci, nasconde spesso un malcelato senso di onnipotenza e di autogiustificazione delle proprie ingiustizie, nel narcisismo di chi si dedica agli altri. Infatti, come negare che sia presente, in misura più o meno ampia, una certa gratificazione nel semplice fatto di sentirsi utili a qualcun altro? Peccato però che, questo nostro sentirci così, talvolta corrisponde a un immiserimento dell’altro, che rischia di sentirsi “sovrastato” dalla nostra presenza, da un nostro aiuto non richiesto e quindi visto come indebito, pur se accolto con gratitudine.

In tante occasioni, quotidiane e non, ci ritroviamo spesso in equilibrio precario, come sopra un filo sottile. Tra parola e silenzio; tra dubbio e verità; tra arroganza e umiltà. E a volte –  davvero – la misura sta nel mezzo.

Più di tutto, credo infine che dovremmo vigilare sulle nostre relazioni, sugli affetti. Sono il luogo della libertà, ma, come Giano, possono mutarsi in vincoli, in palle ai piedi di peso incredibile. È nella vita affettiva che mettiamo (o, meglio, abbiamo la possibilità di mettere) in gioco tutto il nostro essere: anima, mente, cuore, corpo. Oppure no: è a nostra disposizione la scelta tra essere autentici oppure lasciarci condizionare e adattarci al nostro interlocutore o al gruppo di cui siamo in compagnia. Ci sono relazioni che sviluppano una dipendenza, una dipendenza affettiva, appunto. Nasce la necessità di avere sempre l’approvazione di quella persona, di chiederle aiuto, di sapere la sua opinione, si desidera compiacerla in tutto. Facile capire che si può arrivare ad un’ossessione. L’interrogativo profondo a cui rispondere per capire quale direzione stiamo prendendo è se stiamo facendo verità. Se stiamo facendo verità (cfr. 1Gv), allora ci stiamo muovendo nella giusta direzione: quella dell’amore autentico, che crea spazi di libertà dentro e fuori di noi, allarga gli orizzonti e ingrandisce i confini.

Nella Sacra Scrittura (cfr. Ez 3,7) si parla di «dura cervice» e «cuore ostinato». Non l’avevo mai pensata in questi termini, ma, riflettendoci bene, non mi sembra si tratti di un’ostinazione della volontà, cioè una scelta libera, ma si parla appunto di durezza. E a me ricorda quell’ostinazione che è frutto non della determinazione e della grinta di chi difende le proprie scelte. Al contrario, si tratta – propriamente – di dipendenza e soggiogamento della volontà nei confronti di cattive abitudine (ormai così parte di noi da divenire anche difficili da individuare). L’ostinazione non è una volontà determinata, ma una volontà schiava di abitudini, paure, ricerca smodata di piacere, divertimento, incapacità di avere un reale controllo su se stessi. E, quindi, è sinonimo di schiavitù, perché quando si è vincolati alle cose, si ha già posizionato in secondo piano la propria persona, vincolandola – per l’appunto – a qualcosa che vale di meno. Si è assurto a fine ciò che era un mezzo: si è preso un divertimento, un piacere, un rapporto, una “cosa” che in sé non è negativa ma, nel processo di assolutizzazione di essa, ci si è ritrovati a svilire se stessi.

Ecco su cosa è importante fare verità, per svincolarci da tutto ciò che ci fa essere meno liberi di muoverci.

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