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Barche che solcano i mari. Come Ulisse. Come i vichinghi. Con un carico di umanità che reclama ascolto. Con un pieno di speranza che fa colmo ogni anfratto.
Alcuni scappano da miseria, fame, guerre; alcuni da persecuzioni, politiche o religiose. Alcuni vengono dal vicino Oriente (Siria, Afghanistan), qualcun altro dall’Africa (Egitto, Eritrea, Etiopia).
Raggiungono le nostre coste, carichi di sogni. Approdano in un Paese che è lontano dai sogni. Forse non quanto il loro, ma certo più di quanto si sarebbero aspettati. Molti, in realtà, non puntano all’Italia, ma ai Paesi del nord o alla Francia, spesso per ricongiungersi con parenti o amici che li hanno preceduti.
Tanti sono minorenni, non accompagnati ed alcuni tra questi scappano, sfuggono ai controlli, rimangono dispersi oppure entrano in qualche giro di sfruttamento e di malavita.
Quasi tutti si lasciano alle spalle dolore, paura, povertà, incertezza; salvo approdare in nuovi campi d’incertezza, salvo essere stoppati in questa loro fuga con mete spesso imprecise, appena accennate, ma a lungo immaginate ed accarezzate nei sogni che precedono l’alba, quelli che precludono alla loro realizzazione (almeno nel proprio buon augurio).
Clandestini: risorsa o problema? Guaio od opportunità?
Talvolta la risposta corre lungo un filo sottile e teso, che sembra fatto apposta per farci inciampare.
È necessario sottolineare una doverosa distinzione.
Di fronte all’oltrepassamento illecito di confini, il diritto internazionale giustifica l’intervento anche militare, se necessario; questo perché i confini, per uno Stato, sono qualcosa di vicino ad un vincolo sacro, impossibile da oltrepassare impunemente.
Inoltre, molti insistono sulla differenza tra clandestini irregolari e richiedenti asilo in modo regolare, secondo le normative vigenti. In teoria, la distinzione è semplice. In pratica, non lo è mai. Quasi tutti sono senza documenti e la prima necessità è l’identificazione, senza quale tale distinzione è naturalmente impossibile. Vi è poi un problema ulteriore: a meno che non si scelga di fare i sofisti un po’ farisei nell’applicazione delle leggi, non tutti le situazioni tragiche sono correttamente censite e “catalogate”: ci sono persecuzioni non ancora del tutto chiare, privazioni di libertà che, non avvenendo alla luce del sole, rimangono parzialmente nascoste. Non per questo, chi le subisce evita la fuga o ne attende il riconoscimento ufficiale. Il dispotismo, la persecuzione e la mancanza di libertà sono, a livello effettuale, talmente diffusi nel mondo, che è davvero difficile, se non impossibile, trovare un clandestino che non abbia buoni motivi per andarsene altrove. In qualunque luogo che non sia il proprio.
Non si può dimenticare la concretezza della situazione interna attuale, così gravida di problemi e di incertezza per qualunque cittadino, ma in particolare per chi fatica ad arrivare alla fine del mese. Né si può prescindere dall’applicazione di leggi che regolano il vivere collettivo di uomini e nazioni sul comune suolo del nostro continente.
Eppure, di fronte a uomini che cercano una vita migliore oltre i confini a loro noti non si può evitare di interrogarsi e cercare di trovare soluzioni concrete e che tengano conto del soggetto in questione: uomini, donne, bambine che si lasciano tutto alle spalle per inseguire un sogno. Tutto ciò non può lasciare nessuno indifferente.
Se, come Stato, e addirittura come società civile, è possibile accettare – o, quanto meno, tollerare – una risposta dura e persino aggressiva, in quanto autorizzata dalle leggi che lo regolamentano, altrettanto non è possibile fare in quanto cristiano. Gli onori non sono mai privi di oneri. E a nessun cristiano è mai chiesto meno che essere imitazione di Cristo. Questa è infatti la domanda che, più ancora che il catechismo, dovrebbe essere luce sulla via della vita: “Cosa farebbe Gesù al mio posto?”. Non cosa dice la legge, né cosa pensa la gente, né cosa farebbero i miei amici. Tutti questi sono pensieri leciti, naturalmente, ma non dovrebbero risultare la guida di alcun cristiano. È possibile contravvenire alle leggi ingiuste, violare regolamenti, disobbedire ad ordini che non si richiamano all’agire cristiano, ma un cristiano è chiamato a rendere conto delle proprie azioni (ma anche pensieri ed omissioni!), in ultima istanza, direttamente a Cristo. Ecco perché l’indifferenza non è accettabile e, anzi, contro di essa c’è forse l’istanza più terribile che si possa leggere nella Bibbia:

«Conosco le tue opere: tu non sei né freddo né caldo. Magari tu fossi freddo o caldo! Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca» (Ap 3, 15 – 16)

Ovviamente, non è mia intenzione asserire che essere cristiani sia l’unica condizione necessaria per fare il bene. Senza dubbio, tanti si spendono con generosità nei confronti dell’umanità sofferente unicamente in relazione all’unica e comune fraternità universale. Tuttavia, non è qualcosa di imprescindibile, per loro: pur essendo meritevole la filantropia, è – in un certo senso – facoltativa e, quindi, proprio per questo, maggiormente lodevole in chi, senz’altro incentivo, la mette in pratica. Perché a questi non è richiesto in modo altrettanto intransigente, come per i seguaci di Cristo. È ai cristiani che è chiesto di imitare Cristo, per evitare che la loro fede senza opere risulti “vuota”, oltre che (senza dubbio!) incoerente e poco credibile. Il nome cristiano, se non è scomodo, è un orpello inutile e fuori luogo.
Si rendono, inoltre, necessari alcuni rilievi. Purtroppo, dietro alla disperazione di tanti, si cela il business di parecchi. Non solo i famosi “scafisti”, spesso così ben mimetizzati da rendersi irriconoscibili dai passeggeri che trasportano; anche in Italia, la loro accoglienza si è esposta alla speculazione e alla corruzione. Gli enti preposti alla cura dei migranti spesso si sono approfittati dei finanziamenti stanziati per tale fine, convogliandoli invece per i propri interessi personali, o, quanto meno, amministrandoli con poca trasparenza.
In aggiunta, è comprensibile la richiesta di un impegno che non sia solo italiano: l’Italia, a causa della sua posizione geografica è la nazione più esposta agli sbarchi via mare (che, del resto sono, nonostante tutto, una via più sicura degli sbarchi via terra, che, per evitare controlli alla frontiera, spesso avvengono trasportando clandestini nei doppi fondi dei camion, metodo particolarmente pericoloso per gli stessi clandestini, come testimoniano purtroppo diversi ritrovamenti), ma non può essere considerata l’unica che debba farsene carico in modo esclusivo. Se ci può essere unità sovranazionale, se non avviene in queste occasioni di emergenza umanitaria, quando?
Potrà mai un’Europa delle banche che strangola i piccoli risparmiatori e favorisce gli speculatori finanziari creare vera coesione al suo interno? Se si vuole davvero un’Europa delle nazioni e non delle speculazioni, è intorno alla capaci di fare impresa per il Bene che essa può essere focalizzata, se si vogliono ottenere risultati tangibili e durevoli!
Ma forse questo obiettivo non è mai stato preso in considerazione…

“L’’Africa si salva con l’Africa” diceva un certo Daniele Comboni. Probabilmente questa rimane la chiave di volta per comprendere l’argomento. E non solo per ciò che riguarda l’Africa.
Accogliere i clandestini non potrà mai essere la risposta definitiva, potrà al massimo essere una soluzione temporanea, per tamponare un’emergenza e rispondere all’esigenza di uomini in fuga, che necessita una reazione immediata. Ma non può finire qui. Non deve!
Non si tratta di esploratori in cerca di avventure o di giovani che vengono con il proposito di uno scambio culturale. Non è uno scambio alla pari: è la fuga di chi non intende tornare.
La differenza è abissale. Non ci portano la loro cultura per arricchirci, ma fuggono dalla povertà per arricchirsi. Nessuno nasce senza radici: per ciascuno l’aria di casa ha un profumo speciale; per questo, solo come extra ratio si può pensare che tagliare questi legame e oltrepassare questo braccio di mare che ci divide.
No, non è che manchi loro la cultura. L’Africa e l’Asia hanno tanto da insegnarci e non è necessario studiare all’università per esportare la sapienza. La delicatezza dell’ospitalità è qualcosa di unico e leggendario e solo chi l’ha provato può capire cosa significhi: in Occidente non esiste nulla di simile. Non ho mai visto nessuno che, pur non avendo da mangiare, si privi di un boccone per un ospite: lì, l’ospitalità non è mera formalità, è qualcosa che scorre nelle vene!
Il Medio Oriente, culla di civiltà millenarie, porta con sé la storia dell’umanità in ogni angolo. E il sapere antico dei mercanti che, da millenni hanno imparato l’arte sopraffina di vendere, al cui cospetto nessun capitalista occidentale può ritenersi sicuro della vittoria.
Nessun uomo è un’isola e ciascun uomo porta con sé un tesoro personale, frutto delle propria qualità e dei propri doni particolari, ma, al contempo, racchiude anche l’eredità della storia di chi l’ha preceduto, i sapori degli antenati la cui storia gli scorre nelle vene e gli ricorda la sua origine.
Ma non è dalla disperazione che nascono gli scambi che arricchiscono. Il vero incontro avviene tra viandanti della stessa strada, che condividono un cammino in cui ciascuno è protagonista.
Quando ciò non accade, è solo il perpetuarsi di nuove forme di colonialismo dietro le maschere di un apparente buonismo di facciata che cela solo – purtroppo – ipocrisia e vanità.


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