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Di lei mi affascina tremendamente una sfumatura: non ha (nessuna) fretta. Non ha fretta, soprattutto, di trovare delle soluzioni: in lei s’intuisce immediata l’esigenza del porre domande. «Questo è il bello della letteratura, Marco» mi raccontò in uno dei nostri primi incontri. Voler conoscere quello che sta dietro, alzare i tappeti per fare luce sulla polvere ficcata là sotto, agitare una torcia per scendere negli scantinati, rovistare dentro i ripostigli della memoria: c’è sempre, dappertutto, un’altra storia da raccontare, una da salvare, un’altra da portare in superficie. Perchè il mondo creda. L’ho conosciuta tra il grigiore dei casermoni di Piombino, io che in quella città non ci sono nemmeno mai passato, finora. L’aveva raccontata così bene in Acciaio, però, che a me sembrava d’abitarci lì da sempre. Fiutai, dietro quella sua penna d’ingegno, una vita che faceva una pressione bestia e pestifera per uscire fuori. Per scappar via dall’anonimato: era come un fucile caricato che comanda di venire scaricato sulla carta. A farmi innamorare di lei, però, fu Marina Bellezza e quel suo perpetuo rinfacciare alla realtà d’essere com’è. Mi scoprii Andrea, con quella sua voglia matta di reinventarsi, di andare contro, di imboccare il viottolo sterrato a scapito di quello d’asfalto. Di andare avanti, ritornando indietro. In Da dove la vita è perfetta, poi, capii d’avere fatto centro nello scegliermi lei come compagna di viaggio nella scoperta del mondo attraverso la parola: in quel periodo nacque sua figlia, e quelle pagine raccontano in presa-diretta il mistero di una maternità rupestre, dolcissima, ferita e feroce.
È il canto della carne sofferta che si rialza. Sempre, comunque, ogni volta.
Silvia è la mia sorellina non-credente: abbiamo tutti bisogno di aver accanto qualcuno che batta strade diverse, che pungoli le nostre certezze, che ci narri di una bellezza che non appartiene a nessuno perche appartiene a tutti. «Io sono agnostica» raccontò a Papa Francesco in un’udienza così intima d’apparire di casa. Poi, sbalordita dallo sguardo amabile di un Papa sorridente, aggiunse: «Per ora». Quell’avverbio di tempo, con in allegato un sorriso di ritorno, dice la grandezza di un’anima che tiene le porte sempre aperte, una sedia vuota, un piatto di pasta a disposizione. Una pagina di letteratura da condividere. Perchè dove tutti dicono “è finito”, lei riesce sempre a scorgere nuovi inizi: «Si dice spesso: “E’ finito in ospedale, è finito in carcere” – mi disse un giorno – Eppure, se ci pensi, si nasce all’ospedale. In un carcere si può iniziare a vivere, a lavorare, a sognare. Com’è strana la vita». La sua fede nella letteratura, per me, ha qualcosa di mistico, d’irrazionale: quando ne parla finisce col fondersi in essa, tanto da non riuscire più a distinguere quella linea di demarcazione che segnali dove finisce lei e inizia la letteratura. Mi pare, quasi, che le parole nascano nell’attimo in cui le pronuncia, che una storia scenda dal letto quando la racconta, che la sua parola abbia il potere magico di scavare la realtà come uno scultore lavora un pezzo di cirmolo. «E’ la vita», ribatterebbe lei.
Mi convince perchè è una donna-di-parola, nel vero senso della parola: «Penso che l’unica cosa che abbia il potere di restare e di durare, alla fine, siano le parole con dentro un significato – ha confidato a Sette -. Che non ci sia altro modo di trattenere la vita». Non parole qualsiasi, però: parole che abbiano dentro un significato, che odorino di minestra, profumino di lavanda, abbiano la musicalità dei grilli d’estate, delle civette d’inverno. (Ri)penso alla sua fede nella parola scritta e, pensandoci, penso al mio Dio che, un bel giorno, si fece parola: «E il Verbo si fece carne». Parola di carne: da toccare, condividere, mangiare e gustare. Non solo: «E venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,14). Una parola condivisa, bisbigliata, sanguinante e luminosa: parola che pianta la tenda nella città, che diventa tenda per i viandanti, spazio di rifugio per i poeti. Non crede in Dio, Silvia, ma crede nella parola: data, meditata, sofferta. Quando la incontro, mi pare di rivedere il mio matto amico Antoine de Saint-Exupéry: nemmeno lui diceva di crederci. Ma in punto di morte la rotta tracciata portava da quelle parti. Dalle parti di #unamicizia (Rizzoli 2020) che, a me, fa tantissimo bene, proteggendomi dalle intemperie delle abitudini.

silvia

Dal 10 novembre in libreria Un’amicizia, il nuovo romanzo di Silvia Avallone (Rizzoli 2020)

Se le chiedessero di indicare il punto preciso in cui è cominciata la loro amicizia, Elisa non saprebbe rispondere. È stata la notte in cui Beatrice è comparsa sulla spiaggia – improvvisa, come una stella cadente – con gli occhi verde smeraldo che scintillavano nel buio? O è stato dopo, quando hanno rubato un paio di jeans in una boutique elegante e sono scappate sfrecciando sui motorini? La fine, quella è certa: sono passati tredici anni, ma il ricordo le fa ancora male. Perché adesso tutti credono di conoscerla, Beatrice: sanno cosa indossa, cosa mangia, dove va in vacanza. La ammirano, la invidiano, la odiano, la adorano. Ma nessuno indovina il segreto che si nasconde dietro il suo sorriso sempre uguale, nessuno immagina un tempo in cui “la Rossetti” era soltanto Bea – la sua migliore amica.
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