talpaCome una talpa a primavera. S’affronta una montagna per salire verso l’alto, per uscire dalla mediocrità del quotidiano, per affinare un sogno fino a farlo diventare splendida realtà. Non è solo una vana ricerca di prestazioni, un corteggiamento truccato ad una vetta ostile, un tentativo di mostrarsi infallibili: potrebbe essere semplicemente un modo per dimostrare a se stessi d’esserci, d’esistere, d’accendersi per un brivido. Poeti sommi l’hanno dipinta come grembo di madre, pittori e scultori ne hanno segmentato i lineamenti, musicisti e guide alpine ne battono i i sentieri per addolcirne le asperità. Ma da soli la montagna la si gusta meglio, le si parla, ci si confida, le si raccontano frammenti di vita che chiedono silenzio e solitudine per emergere dal fondo dell’anima.
Sono figli coraggiosi, indomiti e caparbi quelli che vanno alla ricerca del suo cuore di madre. Una madre severa, dolcissima, avvincente: che qualche volta si sveglia, si stiracchia, s’allarga per poter respirare. E nel mentre, inghiotte qualcuno che ne cercava la sua voce. Di loro rimangono piccoli cespugli di fiori, qualche croce severa sulle vette turchine, un semplice nome inciso su qualche piatto di fortuna. Di loro rimane quella passione inesausta che li ha portati ad un passo dal sogno, fino a sfidare la vita pur di non cedere alla palude dell’insignificanza. Si sale verso l’Alto, forse una forma inconscia e meravigliosa di contatto con Dio attraverso la sua Creazione. Si sale verso l’alto per tentare di far esplodere in pienezza pensieri che una volta inabissatisi nel cuore mostrano l’insistenza di un bambino capriccioso nell’essere esauditi. E allora si parte: si parte allenandosi, ricercando la forma migliore, contemplando il suo viso da lontano. Studiandone la fisionomia nelle carte topografiche, indovinando le previsioni che da madre la potrebbero mostrare matrigna, raccontandole con lo sguardo un anelito ospitato nel cuore.
Dei più non potremo mai dire che siano gente che sfida la sorte. Sono semplicemente degli innamorati che cercano un amore che rifugga il dramma della formalità, dei salamelecchi, delle frasi di circostanza: un inseguimento che permetta loro di chiudere per qualche tempo il mondo fuori dalla porta. E ospitare il loro vero volto. Semplicemente si cerca la soglia di una casa in cui poter abitare e far abitare la propria semplicità d’uomini. E chi parte sa che la montagna ogni tanto chiede il prezzo di qualche figlio: è la legge della natura, dello sport, della sfida. Lo sanno così bene che qualcuno si raccomanda – in caso di morte improvvisa – d’esser lasciato lassù, dove la madre l’ha chiamato. Un grembo di vita che diventa già da vivi un sepolcro in attesa della Risurrezione. Togliete a questi uomini la montagna e li vedrete spegnersi, addormentarsi quel desiderio incontenibile, quell’ardire che permette loro d’alzarsi al mattino col il fiuto appassionato e feroce di un leone che sa di dover correre per braccare la gazzella veloce.
Le vecchie liturgie degli alpini – uomini avvezzi alle tempeste della natura e dell’anima – affidano la loro sorte alla Signora delle Cime, all’anagrafe Maria di Nazareth. Non a caso una Madre invocata come protezione di chi va cercando un Grembo in cui riporre la loro voglia estrema d’essere uomini non banali. Figli che, stancati e svuotati da un’umanità sempre più faticosa da apprezzare, cercano semplicemente uno sprazzo di luce per poter guardarsi nel fondo dell’anima. E rispolverare il coraggio di azioni meritevoli. Consapevoli che, tra uno sguardo e una carezza, la montagna da innamorata potrebbe diventare traditrice.
Loro lo sanno. E su tale certezza ogni volta ripartono con più ardore.

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