Intervista con Giorgio Ponte – scrittore, insegnante, uomo che non si stanca mai di reinventarsi.
Ci sono incontri che capitano, tra capo e collo, e, prima ancora che tu possa renderti conto di quanto possano essere ricchi, ti accorgi che sono provvidenziali.
Nella matassa dell’esistenza, ci sono fili che si intrecciano, senza che tu l’abbia cercato: “caso” è il nome della Provvidenza, quando vuole agire in incognito. Così si dice. Così è.
1. Come sei finito a fare l’insegnante: una scelta voluta e cercata, oppure hai fatto “di necessità, virtù”?
Dovrei dire che è capitato. Ma in realtà sono del parere che sia stato provvidenziale. Sono venuto a Milano per fare lo scrittore: ho iniziato facendo uno stage presso una casa editrice (fallimentare, rispetto al mio obiettivo). In seguito, ho svolto ogni sorta di lavoro (gelataio, cameriere, commesso).
Tre anni fa, mentre svolgevo il mio lavoro full time di commesso in un negozio di pelletteria, mi rendevo conto che la prospettiva con la quale ero venuto qui si faceva più distante, perché, in quel frangente, non riuscivo ad avere sufficiente tempo per scrivere. Mentre, per me, scrivere rappresentava il modo per “restituire” quello che avevo ricevuto: aiutare gli altri a vedere una storia di salvezza dentro di sé. Tante volte sfioravo l’agognata pubblicazione, che però non arrivava mai. Proprio in quel periodo mi capitò di conoscere, per vie traverse, un insegnante di religione, il quale mi suggerì di provare la sua stessa strada, perché con la mia formazione (ho frequentato sempre scuole di gesuiti) e la mia laurea in Comunicazione Sociale all’Università Salesiana, avrei potuto facilmente ottenere l’abilitazione. Inizialmente, scartai la proposta. Anch’io, come tanti, mi ero sostanzialmente fatto l’idea che chi insegnava religione fosse un po’ lo sfigato che, non avendo avuto abbastanza coraggio per farsi prete o per sposarsi, si era adattato a questa alternativa.
Il Signore mi ha dato però quest’opportunità, quando ero pronto ad accoglierla. Quando capii che il lavoro in negozio, pur permettendomi un sostentamento, non mi avrebbe permesso di scrivere, decisi di non accettare il rinnovo del contratto e mi ricordai di quella conversazione avuta con l’insegnante di religione. Quello poteva essere il lavoro giusto per conciliare tutto. Due mesi dopo aver sostenuto il colloquio in diocesi, ho iniziato ad insegnare presso il Liceo Artistico Statale di Brera (sede di via Hajec).
Non appena entrato in classe, la prima domanda che mi fu rivolta mi fece capire di essere nel posto giusto: «Perché la Chiesa odia gli omosessuali?». Compresi allora che il Signore mi aveva preparato da tutta la vita per essere proprio io lì, quel giorno, a rispondere, con tutto il bagaglio di esperienza che mi portavo inciso nella carne.
2. Pensi che il tuo lavoro sia sufficientemente valorizzato dallo Stato e dalla società civile? La scuola può arrivare ad esautorare il ruolo della famiglia?
Non sono molto per le lotte di classe: complice il fatto che è poco che faccio questo lavoro, non ho un grande senso di appartenenza alla categoria. Sicuramente, però, gli insegnanti italiani non sono remunerati come negli altri stati europei. La considerazione dei genitori nei tuoi riguardi, con le dovute eccezioni, rischia spesso di oscillare fra l’idea che tu sia a disposizione del figlio, come una specie di servo, e che tu sia però l’unico responsabile in caso di un suo comportamento sbagliato. Sembra quasi che i genitori richiedano che tu ne prenda al posto, ma senza riconoscerti l’autorità per farlo, dal momento che essi tendono a giustificare i comportamenti negativi del figlio ed a minimizzare le tue osservazioni.
Per quanto poi riguarda, nello specifico, gli insegnanti di religione, sono generalmente poco considerati da tutti: dagli studenti, dai colleghi e dai genitori degli alunni. Questo è dovuto senz’altro a un malinteso sulla funzione dell’ora di religione, che viene vista come un’ora supplementare di catechismo: invece questa materia, dovrebbe essere considerata un arricchimento culturale e al contempo un tassello fondamentale nella costruzione del proprio percorso personale. La religione infatti affronta le domande sul senso della vita cui ogni uomo in ogni tempo è chiamato a rispondere, a prescindere da quale sia il suo credo di appartenenza.
Alle volte i colleghi ti guardano come uno che non conta niente, il cui apporto è insignificante; altre volte, addirittura, sei guardato con sospetto, come se il tuo obiettivo fosse quello di manipolare le menti dei ragazzi. Per fortuna ogni scuola è diversa e non ci sono solo situazioni negative. In questi tre anni mi è capitato più di una volta di avere colleghi che mi stimavano e che io stimavo molto, con i quali abbiamo collaborato bene e, almeno in un caso, una preside che mi ha sostenuto in ogni iniziativa. E poi ci sono i ragazzi. E loro sono sempre meravigliosi. Anche quando ti fanno imbestialire. Alla fine è per loro che tutto questo vale la pena.
3. È possibile trovare un giusto equilibrio tra soddisfazione di sé e umiltà? O consideri negativa l’umiltà?
Oggi l’umiltà è erroneamente considerata ala stregua della denigrazione di sé, confondendola spesso con la falsa modestia. La vera umiltà è guardarsi nella verità, vedendo sia debolezze che punti di forza. La soddisfazione di sé è giusta, di fronte ad un lavoro fatto bene, svolto con cura. Negarlo sarebbe stupido e non realistico.
Come insegnante, c’è, effettivamente, il rischio dell’autocompiacimento, così come della ricerca di una gratificazione personale. Io prego sempre per questo: che io non cerchi di condurli a me, né di misurare i miei risultato sulla base del loro gradimento nei miei riguardi. Non è questo il vero “frutto” del tuo lavoro: il più delle volte, i risultati si fanno aspettare e si manifestano quando meno te l’aspetti. Io, personalmente, faccio sempre quello che posso, anche se so che si tratta di un “meglio” relativo e mai assoluto.
Denigrare, anche se si tratta di se stessi, non è mai utile: come puoi donare agli altri, se non vedi la bellezza in te?
4. Dove lavori e che età hanno i ragazzi che sono tuoi allievi?
Finora, ho lavorato quasi sempre alle Medie Inferiori, con ragazzi dagli 11 ai 14 anni, mentre inizialmente ero stato assegnato alle classi di un liceo artistico (quindi 15-19).
5. Che ricordi hai della tua vita scolastica come studente?
Tutte le scuole che ho fatto, prima dell’università, erano dei Gesuiti e questo lo considero un dono: vi ho riscontrato, infatti, grande attenzione alla persona, sotto ogni aspetto. Tanto di quello che sono oggi lo devo a loro, sia a livello didattico che umano (raggiungimento dell’autonomia personale). Come studente, ero molto incostante: forse solo un anno, in prima media, ho studiato costantemente, senza fare “secchiate”. Poi ricordo l’ansia per i compiti in classe o le interrogazioni, che mi ha accompagnato almeno fino in prima liceo classico.
I miei amici erano per lo più al di fuori della classe, tranne forse durante il periodo delle medie. Probabilmente è dovuto al fatto che io fossi il più piccolo in famiglia, mentre tutti i miei fratelli erano più grandi di me: ero abituato a stare con persone adulte, quindi i miei compagni di scuola mi sembravano stupidi, mentre io a loro sembravo strano.
Al di fuori dell’ambiente della classe, tramite un’esperienza spirituale all’interno del liceo, sono riuscito a conoscere persone con cui mi trovavo di più, con cui condividere divertimenti più semplici, senza la necessità di fare cose “esclusive” o particolarmente dispendiose. Da questo punto di vista, la scoperta del fatto che io sapessi cantare, ha portato ad un miglioramento del modo con cui ero visto dai miei compagni di classe.
6. Hai imparato di più da insegnanti che stimi o da quelli che non hai mai sopportato?
Ho imparato da entrambi: ora sto capendo tante cose che, a quei tempi, mi sembravano distanti e poco comprensibili, come ad esempio la fatica e l’impegno che investe un insegnante, nel tentativo di ottenere risultati dai ragazzi.
Non penso a nessuno in particolare come ad un modello, eccezion fatta per la mia insegnante di italiano del ginnasio. La sua passione per la materia la portava a possedere quell’autorevolezza, che era in grado di garantirle il rispetto dei ragazzi.
7. Abiti a Milano, ma vieni dalla Sicilia: hai trovato mai qualche difficoltà dovuta alla provenienza geografica, oppure trovi che Milano sia ormai abituata a “fagocitare” tutto e non ci sia più grande differenza tra i componenti del tessuto sociale meneghino?
Adoro questa città e l’ho trovata assolutamente accogliente. Non sarei diventato scrittore, se non fossi venuto qui. Sono stato accettato, sostenuto e – oserei dire! – amato da Milano. Storicamente, è una città abituata a vedere tanta gente che arriva in cerca di fortuna e le persone sono disponibili a dare una mano ai nuovi arrivati. Inoltre Milano offre tanti servizi, il che influisce positivamente sulla qualità della vita. Nonostante la crisi, si avverte la sensazione che qui, se ti dai da fare, puoi ancora costruirti il tuo pezzo di mondo.
Anche dal punto di vista della vita della Chiesa, Milano è straordinariamente vivace, come uno non si aspetterebbe mai: attiva, giovane e vitale, ricca d’iniziative. Con i suoi limiti, come tutto, ma non c’è paragone rispetto alle altre diocesi da cui provengo.
8. Quanto può incidere un buon insegnamento scolastico, nella vita di uno studente delle superiori (il periodo più critico, bello ma anche ricco di cambiamenti, nella vita di una persona): un buon insegnante può davvero incidere così tanto nella vita di una persona ancora in formazione?
Per la mia esperienza personale un professore può segnarti sia in positivo che in negativo. Anche solo comunicare passione per la materia può essere un lascito importante. All’inizio magari non sembra perché non vedi una bella relazione instaurata, poi però gli allievi ti fanno capire che qualcosa gli è rimasto, di te, della materia, di qualche parola che gli hai detto. Insegnare è sempre un investimento sul futuro, dei cui risultati concreti non puoi mai essere certo. È un investimento anche sulla speranza. Getti i tuoi semi e ti auguri che possano fiorire a tempo debito.
9. Quali sono, secondo te, le caratteristiche di un buon insegnante, perché riesca a mantenere alta l’attenzione in classe?
Una caratteristica fondamentale, per un insegnante, è coinvolgere i ragazzi.
Poi, aggiungerei l’onestà: se sbagli, e a tutti prima o poi capita di sbagliare (nella valutazione di una persona, nell’attribuire la responsabilità di un guaio a uno che non ne aveva) è bene dirlo apertamente. Non riconoscere i propri errori, per un malinteso senso dell’autorità, rischia, al contrario, di intaccare la tua credibilità. Se invece ti mostri come persona che ammette i propri errori, gli alunni si fidano di te e tu puoi anche richiedere qualcosa che a loro costa fatica, perché hanno capito che tieni a loro.
L’obiettivo da raggiungere sarebbe avere un’atmosfera rilassata, pur mantenendo dei punti fermi, per evitare che si sfoci in un’atmosfera inadatta alla scuola, che lascia tutti insoddisfatti.
10. Qual è il tipo di studente che maggiormente intriga e solletica il tuo essere insegnante?
Quelli intelligenti mi conquistano sempre: brillanti, magari che possiedano anche una certa aria di sfida. Ti sfidano, sì, ma poi ti prendono sul serio: sono davvero interessati, pur osteggiandoti. Alcuni sono teneri, altri leggono le cose con un’intelligenza emotiva veramente elevata, nonostante spesso non abbiano alcuna stima di sé. Certi ragazzi poi, vivono situazioni personali molto difficili ed è inevitabile legarsi a loro. Vorresti “salvarli”, ma capisci che non sei tu che salvi. Il combattimento è loro, tu puoi solo cercare di prepararli alla battaglia.
11. Che cosa cambia la materia insegnata (nel tuo caso, religione)? La tua è più predisposta a instaurare un più profondo dialogo coi ragazzi?
Qualsiasi professore, se è in gamba, ti forma anche umanamente, insegnandoti passione, rispetto, impegno. Alcune materie senz’altro si prestano maggiormente ad una riflessione che riguardi la tua vita e la tua persona. Quelle umanistiche ad esempio (filosofia, storia, letteratura…). Ma più di tutte, senz’altro religione si presta a questo.
A livello personale, non ho mai ritenuto che il mio lavoro si concludesse con lo squillo della campanella. Specialmente per la materia che insegno, se vedo un ragazzo che sta male, non posso ignorarlo. Devo aiutarlo in quel momento di difficoltà. O, quanto meno, provarci.
12. Nella tua materia, essere testimoni è forse particolarmente richiesto. C’è mai stato un momento in cui le domande dei ragazzi ti abbiano seriamente messo in imbarazzo?
Sì. La prima volta che entrai in classe, con la domanda sull’omosessualità citata in precedenza (domanda 1, n.d.C.). In genere quelle riguardanti la sessualità mettono sempre un certo imbarazzo, soprattutto nei rari casi in cui emergano in prima o in seconda. Tendenzialmente cerco sempre di rispondere, per evitare di creare un tabù al riguardo, pur prestando attenzione a parlarne in modo adeguato all’età di chi ho davanti. Ogni tanto capitano domande personali sulla propria condizione di vita, ma adesso che sono scrittore, non hanno più bisogno di chiedere. Basta che guardino in Internet.
13. Qual è la mancanza principale che avverti negli adolescenti con cui vieni a contatto?
Senz’altro, la mancanza di sicurezza. Certo, in quell’età di cambiamento un po’ di insicurezza è da considerarsi fisiologica, ma non a questi livelli e con questa diffusione e persistenza. La disgregazione delle famiglie, sarà banale, ne è il motivo principale. Non avendo alcun punto di riferimento stabile, i ragazzi non riescono a trovare chi sono.
Si tratta di figli cresciuti da generazioni insicure, in primisi la mia, che non possono insegnare ciò su cui loro stesse sono confuse. Se non c’è più certezza neppure riguardo all’uomo e alla donna, a che cosa fai riferimento? Se tutto è bene e niente è male, con quale criterio scegli nella vita? Annullato ogni credo religioso, ogni valore, regola e convinzione, “Liberati” dalle tradizioni, e in ultima istanza dalla realtà con i suoi limiti, abbiamo lasciato a questi figli un deserto esistenziale sconfinato. Senza punti di riferimento possono solo navigare a vista, con l’unico obiettivo di trovare un posto dove parcheggiarsi. A meno che qualcuno non decida di cambiare le cose.
14. Che cosa credi pretendano gli studenti, da parte di chi è dall’altra parte della cattedra?
Che tu ci tenga a loro. Vogliono sentire di essere importanti per te. Che li ascolti, che ti poni loro come una persona che ha anche vissuto da studente e che, quindi, è in grado di capirli ed ascoltarli. E che trovi nuovi modi per interessarli. Questa è una generazione iperstimolata dai nuovi mezzi di comunicazione, che sono molto coinvolgenti a livello sensoriale, ma che li abitua poco al contatto umano o ad un livello di contenuti approfonditi. Quindi, è necessario che tu sappia essere variegato nella modalità di comunicazione con loro, altrimenti la loro attenzione cala subito.
15. Cosa ricordi distintamente di aver imparato grazie ai tuoi studenti?
In primo luogo a divertirmi. Ed in particolare, che ci si può divertire senza rinunciare al proprio ruolo di insegnante.
A non avere paura della mia goffaggine: a prendermi in giro su questo, perché loro sono i primi a prenderti in giro.
Ma più di tutto con loro ho sperimentato l’essere padre: avere a cuore il loro bene prima del mio. in negativo, significa anche capire quanto possa essere frustrante per un genitore cercare il dialogo con chi non vuole parlare con te. Infine, mi hanno insegnato la consapevolezza che non puoi salvare le persone: puoi condividere un pezzo di strada, puoi consigliare cose che hai sperimentato essere buone per te. Ma nessuno salva, se non Dio. E, soprattutto, non puoi salvare chi non vuole essere salvato.
CHI È
Scrittore di romanzi. Graphic designer, Esperto di Comunicazione e soft skills: teatro, scrittura, ufficio stampa, grafica editoriale e web, gestione clienti. Insegnante.
Autore del libro “Io sto con Marta”, edito da Mondadori.
Dalla quarta di copertina:
«Mi chiamo Marta Barbieri, sono siciliana, ho ventinove anni e un talento naturale per incasinarmi la vita.» Se potesse dire la verità, sarebbe così che Marta, quasi-trentenne disoccupata di Palermo, si presenterebbe al colloquio con l’editore milanese da cui spera di essere assunta. Ma si sa, ai colloqui di lavoro la verità non è un argomento da tenere in considerazione. Ai colloqui di lavoro e con i genitori. Mai. Per questo, dopo aver scoperto che la sua “grande occasione” lavorativa è in realtà una bufala di dimensioni ciclopiche, Marta decide di non dire niente ai suoi e di cercarsi un lavoro qualsiasi, in attesa di una nuova opportunità. Dopotutto a Milano tutti trovano lavoro, vero? Da aspirante editor a correttrice di bozze, da cameriera in un pub gay a gelataia in una azienda di schiavisti del cono perfetto, Marta si ritrova, dopo sei mesi di bugie e situazioni paradossali, a precipitare in una serie di eventi tanto catastrofici quanto esilaranti da cui sembra impossibile tirarsi fuori. A meno di non chiedere aiuto a un santo speciale… Armata di un gruppo di amici fedeli e di un instancabile ottimismo, Marta decide di non arrendersi e di conquistarsi il suo posto al sole in una Milano che – attraverso i suoi occhi – diventa per magia colorata e divertente. Aperitivi, palestre, eventi culturali cui “non si può mancare” e fretta patologica sono solo alcune delle sfide metropolitane con le quali dovrà fare i conti. E non dovrà sottovalutare nemmeno l’incontro con un ragazzo decisamente sorprendente… Ma in fondo la vita può essere meravigliosa anche quando è incasinata. O no? Giorgio Ponte ci regala a una commedia che ci parla di noi, della complessità dell’esistenza per le strade delle nostre città, della sfida quotidiana di un’intera generazione alla ricerca di un lavoro dignitoso, del diritto che ciascuno ha di guardare al futuro con fiducia: e lo fa con una freschezza e un’ironia contagiose, frutto di un lavoro attento e paziente sui personaggi e sulle parole per raccontarli. Senza moralismi, con allegria e sapienza, questo romanzo fotografa il nostro mondo e ce lo restituisce illuminato di una luce nuova: così che, a lettura finita, viene voglia di gridare con entusiasmo Io sto con Marta!