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Dagli Atti degli Apostoli arriva un monito estremamente attuale in una Chiesa, molto spesso, preoccupata di “fare”, che, talvolta, rischia, però, di dimenticare l’importanza della Liturgia.
Al sorgere delle mormorazioni, innanzitutto, invece di pensare a sgridare coloro dai quali queste provenivano (forse, a noi verrebbe spontanea esattamente questa soluzione), hanno cercato dove stesse un motivo di arricchimento e una giustezza di richieste.
Nella nascente comunità cristiana, i fedeli di lingua greca si lamentavano infatti che le proprie vedove fossero trascurate, rispetto a quelle di lingua ebraica (niente di nuovo sotto il sole, no?). Gli apostoli si rendono conto che, invece di far tacere le persone moleste, una simile richiesta era – piuttosto – utile a far loro aprire gli occhi, suggerendo loro che la vigente organizzazione era, in qualche modo carente; non solo si occupava solo di alcuni a scapito di altri, ma ciò implicava trascurare la parola di Dio e la frazione del pane (la liturgia, diremmo noi):

«Non è giusto che noi lasciamo da parte la parola di Dio per servire alle mense. Dunque, fratelli, cercate fra voi sette uomini di buona reputazione, pieni di Spirito e di sapienza, ai quali affideremo questo incarico. Noi, invece, ci dedicheremo alla preghiera e al servizio della Parola» (At 6, 3-5)

Dal momento che la Parola si è incarnata, in Cristo, la Parola contenuta nella Scrittura Sacra e quella contenuta nel Pane eucaristico finiscono per essere espressione diversa di un’unica cosa, tant’è vero che, pur essendovi due parti principali, nella Messa (liturgia della Parola e liturgia Eucaristica), è l’unione delle due che forma la celebrazione del rito.
Contemporaneamente, dunque, se gli apostoli (antesignani dei sacerdoti) sono richiamati a quello che è il loro servizio principale, cioè l’amministrazione dei sacramenti, non è però trascurata l’importanza del servizio da rendere ai fratelli. Ecco, dunque, la nascita della figure del diacono (parola che viene dal greco e significa, per l’appunto, “colui che serve”) e che, da quel momento, avranno come primaria preoccupazione i poveri. Tra questi, è annoverato santo Stefano, il primo martire cristiano che, qui, è ricordato come “pieno di Spirito Santo”. Attualmente, oltre ai diaconi transeunti (i seminaristi in procinto di diventare sacerdoti), ci sono ancora i diaconi permanenti, anche se non tutte le parrocchie ne fanno diretta esperienza. Sono uomini adulti che possono essere sposati (se il matrimonio è già stato contratto) ed il loro compito è proclamare il Vangelo, all’interno della celebrazione eucaristica (li riconosciamo per la stola, di colore abbinato al tempo liturgico, portata obliqua, sopra l’alba); si possono, inoltre, occupare della Caritas, della catechesi, dei gruppi parrocchiali o di altre funzioni, compatibilmente con l’eventuale lavoro e gli impegni familiari.
È interessante come, già all’inizio, la realtà stessa ha riportato gli apostoli alle origini, ripensando la propria organizzazione, così da non trascurare né il servizio ai poveri, né la liturgia. Fin dai propri albori, la Chiesa si riconosce, dunque, come dimora dell’ET e non dell’AUT-AUT. Consapevole che, nell’Incarnazione di Cristo non è possibile privilegiare l’anima a discapito del corpo (né viceversa), sin dall’inizio, un problema importante che le s’impone è proprio come armonizzare i vari aspetti che caratterizzano l’uomo, che non essendo né bestia né angelo (come ben sottolineava Pico della Mirandola) porta con sé il fardello, ma anche l’opportunità del libero arbitrio, che è necessario giocarsi bene per conquistare la felicità, propria e altrui. Entrando nel dettaglio delle nostre chiese, credo che questo brano, poi, dovrebbe aiutarci a ricordare quale sia il primario ruolo dei sacerdoti, troppo spesso oberati di impegni che nulla hanno a che fare con il ministero, e a pensare che, magari, oltre ai diaconi, anche noi, nel nostro piccolo, possiamo “fare Chiesa” dando una mano, invece di pretendere sempre che le cose siano fatte (da altri).

«Quanto sono belli i piedi di coloro che recano un lieto annuncio di bene!»

La liturgia stessa, con la seconda lettura, in cui c’è un pressante invito all’annuncio, mi sollecita a riprendere, sintetizzandolo, quanto ha scritto un sacerdote di Bergamo (di cui, per altro invito alla lettura integrale): diciamo, spesso, che il vero annuncio è una vita che “parla” di Cristo (a una simile affermazione, tra le altre cose, ci spinge, forse, la sensazione di respingere il “farisaismo”, avvertendo come necessaria la concretezza della fede che professiamo). E tutto questo è vero, beninteso. Seguire Cristo significa “cristo-formarci”, cioè assomigliare sempre più a Cristo. Questo dovrebbe essere l’obiettivo di ogni cristiano. Ma. Ma c’è un ma enorme, grande come una casa, che fa sì che non possiamo pensare solo questo. È il peccato originale, che ha ferito la natura umana, per cui, oltre ogni buona volontà, dobbiamo essere pienamente consapevole che la miglior testimonianza possibile che la nostra vita potrà offrire rimarrà comunque imperfetta, carente, deficitaria. Ecco perché, almeno ogni tanto dovremmo parlare apertamente, fornire una testimonianza “diretta”, in parole, in spiegazioni. Non lasciare tutto all’intuito altrui. Questo, per altro, comporta anche maggiore responsabilità, da parte del singolo: significa la consapevolezza di essere un soggetto “in formazione permanente”, anche dopo l’iniziazione cristiana, di modo da essere « pronti sempre a rispondere a chiunque ci domandi ragione della speranza che è in noi» (1Pt 3, 16).
Tutto ciò è fondamentale, se non vogliamo rischiare di fermare l’orizzonte del nostro sguardo al diventare “brave persone”, tipi simpatici, magari, ma incapaci di incidere sulla realtà. Al contempo, però, come sottolinea il Vangelo, nessun annuncio può prescindere dalla chiara focalizzazione su Gesù Cristo. Lui è l’Unico Pastore, il Sommo Sacerdote, perché è l’Agnello di Dio, che ci indicava domenica scorsa san Giovanni Battista, cioè l’Unico sacrificio che abbiamo la certezza rispecchi la Volontà di Dio e che quindi sia in grado di restituirci la vera libertà e la vera pace, che provengono dal perdono.

 

Rif: letture festive ambrosiane, nella IV Domenica di Pasqua, anno A (At 6, 1-7; Rm 10, 11 – 15; Gv 10, 11-18 )


Fonte immagine: YouTube 

Fonte: Xoomer

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