Scelse il pane, come chi «riconosce la sua terra dal sapore del suo pane» (L. Savary). Non poteva essere altrimenti per uno che era nato col sapore del pane sotto al naso. Che s’aprì al mondo nella terra di Betlemme, la casa del pane. Terra di contadini, di poeti, di gente che sa fare il pane, di gente che ama gli alberi e riconosce il vento dal suo fruscio. Un cielo fatto di pane e di stelle.
Il primo che mostrò di saperci fare con gli impasti fu il Padre del nazareno: non il carpentiere, quell’altro. Quello della terra impastata con il fango. L’adorarono, subito dopo lo bestemmiarono (liturgia della XVIII^ domenica del tempo ordinario). Ingiuriato dall’Israele furibondo che si era incolonnato nella strada del deserto, quella sera s’ingegnò un qualcosa di granuloso, simile alla rugiada, che sbalordì gli animi irrequieti del popolo eletto: «Man hu: che cos’è», si dissero l’un l’altro guardandosi in faccia. Toccò a Mosè dare risposta: «E’ il pane che il Signore vi ha dato in cibo» (Es 16,15). La storia di quel popolo beduino e ribelle è tutta lì: tra pane e cipolle, Egitto e Sinai, schiavi e liberi. Dio e l’altro: la pancia piena e il cuore sazio, da soli o con lui.
Una tradizione di fornai che il nazareno portò avanti con gusto. Pure lui dal deserto, faccia a faccia col gradasso che ben sapeva quella sua preferenza per l’alimento: «Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio» (Mt 4,4). Quella volta fece il pane con le parole. Se la cavò da Dio, tanto che «il diavolo lo lasciò» (Mt 4,11): certi cibi gli rimarranno sempre indigesti. Al Cristo, invece, rimarranno sempre digesti, come in quel meriggio di gente affamata. Con sole cinque pagnotte, sfamò un’intera tribù di gente: «Quelli che avevano mangiato i pani erano cinquemila uomini» (Mc 6,44). Gli scappò pure la misura quella volta: «Raccogliete i pezzi avanzati perché nulla vada perduto» (Gv 6,12). Un’accortezza, che gli ultimi mangiassero anche se i primi avessero mancato di creanza: «Troppe chiese dorate e troppi villaggi senza pane» (A. Malraux). Sempre premuroso il Dio fornaio.
S’appassionò di pani al punto tale da fondersi in esso: «Io sono il pane della vita. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno» (Gv 6,45-47). I tempi non erano ancora sospetti, s’era lungi da Gerusalemme, i discepoli confondevano ancora i due regni – il loro e quello di lui – ch’era un piacere; un dispiacere. Eppur lui, come un maestro mai domo di ripetere i concetti, buttava lì quel pane a destra e a manca. Sui tavoli, nei discorsi e nelle orazioni: «Dacci oggi il nostro pane quotidiano» (Mt 6,11). Cristo come il Pollicino dei Vangeli: quelle briciole un giorno diverranno segnaletica. Tracceranno la strada del pane.
Fu di sera quando sferrò l’attacco finale: alle anime grezze i simboli valgono più delle parole. Sciacquati i piedi degli amici, approfittò d’un battito di stranimento. S’accorse ch’era rimasto nel pane nella tovaglia, lo prese e si impastò in esso: «Prendete e mangiate; questo è il mio corpo» (Mt 26,6). Dal pane dei fuggiaschi – quelli scampati alle paranoie del faraone – al pane dei figli. Nella cena ch’era ricordo perenne dei fuggiaschi ribelli e liberati: il cerchio s’era chiuso. Nel nome del pane e del Padre.
Tra gli umani il pane è alimento: sazia il corpo e rafforza le fibre. E’ anche indice e indizio di qualità: “Essere buoni come il pane, guadagnarsi il pane col sudore della fronte, vivere a pane e acqua, mangiare pane e lacrime”. Non per nulla l’uomo che a Lucifero rifiutò il pane, scelse poi il pane per raccontare se stesso. Per darsi come cibo a chi un giorno ne seguirà le briciole lasciate.
Per il pane hanno combattuto guerre e aizzato rivolte: «Ah birboni! Ah Furfantoni! E’ questo il pane, che date alla povera gente?» (A. Manzoni). Col pane hanno scritto ospitalità e amicizia. Il pane è frutto della terra; anche del lavoro dell’uomo. Tra le sue molliche son celate stagioni feconde, carestie brutali, campi irrigati. Diventare pane è saper morire per prendere gusto: «Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto» (Gv 12,24). Tutto torna, tutto profuma.
I mangiatori di pane saranno chiamati cristiani. Per loro il pane sarà materia di orazione, reliquia d’adorazione e cibo per i giorni di festa: il pane della domenica, il pranzo delle solennità, l’Eucaristia. Il mondo li riconoscerà dallo spezzare il pane. Anche dal disprezzare il pane: “Non si gioca con il pane, bambini”. Era la voce solenne della nonna: erano i tempi delle molliche lanciate per aria. Era la salvaguardia del pane, una catechesi sul pane.
Radio24 – “Spunti di vista”
Per chi si fosse perso la puntata di “Spunti di vista” di Radio24 del 28 luglio scorso, segnalo il link. La riflessione – condotta da Irene Zerbini e incentrata sulla vicenda della tabaccaia di Asti da Pasqualino Folletto – inizia al minuto 15.