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Nella prima lettura, incontriamo il diacono Stefano (lo stesso che festeggiamo come primo martire il 26 dicembre) intento alla predicazione, che, nel settimo capitolo degli Atti degli Apostoli, racconta alcuni episodi dell’antico Testamento, mettendoli in relazione con il messaggio di Cristo. Dopo il riassunto delle vicende di Abramo, la storia d’Israele prosegue con Mosè, di cui ricorda che fosse “bello” (stesso attributo riconosciuto al Pastore) e “potente in parole ed opere” (ricordiamo che era balbuziente!). Quest’uomo assiste, con impotente stupore al famoso episodio del roveto ardente, in cui vede un cespuglio bruciare, senza consumarsi, e sente la voce di Dio, che gli comanda di togliersi i sandali, quale segno di rispetto nei confronti della Presenza di Dio. Stefano ricorda poi la fuga dall’Egitto e l’episodio del vitello d’oro (quando il popolo d’Israele, volendo rendere concreto e palpabile quel Dio che li guidava, costruirono un vitello con i loro monili più preziosi). Dopo aver dato come dimora a Dio la “tenda della testimonianza”, solo con Salomone Dio ebbe una casa. Ma Stefano ci tiene a una precisazione fondamentale: “l’Altissimo tuttavia non abita in costruzioni fatte da mano d’uomo” (At 7,48). Sono ormai millenni che l’uomo, con lo stesso struggimento del re Davide, si prodiga affinché Dio possa avere una dimora: eppure, nel Santissimo Sacramento è presente nel più umile degli ostiari, come nel più magnifico dei tabernacoli di qualcuna delle nostre grandiose cattedrali.

“Testardi e incirconcisi nel cuore e nelle orecchie, voi opponete sempre resistenza allo Spirito Santo” (At 7, 51). Questo è lo spirito con cui è stata fatta questa narrazione: non come semplice enumerazione, magari allo scopo di dar sfoggio di cultura, bensì, come la constatazione sapienziale che non c’è niente di nuovo sotto il sole (cfr. Qo 1,9). Il cuore dell’uomo è sempre lo stesso. Nella parabola del popolo d’Israele possiamo rileggere la nostra storia personale, ogni storia umana, fatta di cammino di fede, di tradimento, di ribellione, di libertà, ma che ha – sempre, persino quando non ce ne accorgiamo e quando facciamo fatica a comprenderlo ed a vederlo – il sottofondo della tenacia dell’amore di Dio per ogni Sua creatura.
La folla che ascolta la predicazione non è particolarmente entusiasta a sentirsi rivolgere tali epiteti. La verità non è mai facile da digerire. La conclusione, (“all’udire queste cose, erano furibondi in cuor loro e digrignavano i denti contro Stefano”, At 7, 54) è solo liturgicamente reticente: sappiamo bene – infatti – come tale atteggiamento (e non è difficile immaginarlo neppure qualora ne fossimo ignari) rappresenti il prologo del martirio di Santo Stefano.

La seconda lettura, tratta dalla Prima Lettera ai Corinzi, pur usando un linguaggio un po’ filosofo, vuole trasmettere – in realtà – un invito, sostanzialmente, piuttosto semplice: dare la propria disponibilità al lavoro di Dio. La tentazione è, infatti, talvolta, quella di affannarsi, nel tentativo di migliorarsi, rincorrendo l’ambizione di poter attribuire a sé il proprio percorso. Al contrario, la fede più vera è abbandonarsi nelle mani di Dio, confidando che, oltre le limitate forze umane, Egli può operare anche ciò che noi non comprendiamo e non sapremmo replicare.

«Questa è la vita eterna: che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo» domanda Gesù, nella splendida preghiera contenuta al capitolo 17 del Vangelo di San Giovanni. Nella semplicità, in questo consiste la gioia del cristiano: la consapevolezza di essere amati dal Padre, con la possibilità di poter prolungare questa relazione per l’eternità. In questo consiste il Regno di Dio, la cui sovranità inizia nel cuore che gli fa spazio, quotidianamente, accogliendoLo come compagno di viaggio.
«Padre santo, custodiscili nel tuo nome, quello che mi hai dato, perché siano una sola cosa, come noi»: per il cristiano, misura dell’amore è l’amore-senza misura che circola nella Trinità. Ecco perché, più che raccomandare alla fragilità umana dei propri discepoli il messaggio cristiano, il Maestro preferisce che essi siano custoditi nel nome del Padre.

(rif: letture festive ambrosiane, nella V Domenica di Pasqua, Anno B)


Fonte immagine: www.jw.org

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