Con lo struggimento delle barche addosso, abbarbicati alle vecchie usanze del mestiere paterno. Con buona pace del vecchio padre che – anni addietro e col dito puntato contro – profetizzò che sarebbero tornati di moda quei vecchi strumenti d’acqua: scafi e remi, barche e sale, il timone e quell’andazzo mattutino dei mercati da imbastire alla bell’è meglio. Gente tornata pratica delle acque del lago dopo l’intermezzo della sequela raminga per la Galilea. Tornati ai vecchi sogni d’un tempo, col ricordo di Lui sempre cucito addosso. Ad ogni piè sospinto, ad ogni giro di boa, ad ogni mattana di pesci: «Sognando da sveglio / davanti al mare immenso / non prendo neanche un pesce. / Non faccio niente? Penso» (poesia di un anonimo pescatore di Camogli). Sulla strada del vecchio paesello natìo, come emigranti di ritorno da un tentativo di fortuna fallato.
La casupola di Pietro è scortecciata dal tempo e dall’acqua di mare. Profuma persino di salsedine il vecchio legno della porta: “Vado a cercar pesci” (liturgia della III^ domenica di Pasqua). Scordata l’avventura di pescare uomini, si torna alla vecchia mercanzia d’un tempo. Tre anni prima non s’era nemmeno voltato indietro a dar la mano ai vecchi di Cafarnao: stavolta si volta attorno a cercare sequela. In sette gli daranno man forte: sotto la ruffianeria d’un lago ancor una volta traditore. Imbufalito, seppur apparentemente placido.
Pur pratici d’acque dolci, di dolce quella nottata terrà ben poco: resti sgonfie e tristi, la muscolatura che duole e i pensieri che s’ingrassano: pel presente, del domani. Stavolta anche del passato: “Andrea, io me lo vedo dappertutto. Non mi do pace” – sbatte col gomito il burbero di Galilea. Due volte era apparso loro, eppur non sembrava esser bastato per lenire la mestizia di quella Presenza. Di quel Rabbunì così strano.
Ancora pesca, ancora fame, ancora cibo frammezzo: “Figlioli, non avete nulla da mangiare?” (Gv 21,5). Nulla, neanche stavolta: villani pur oggi, come tempo addietro, con chi chiede companatico da mettere sotto i denti. Stessa trama, medesima storia – la loro storia con Lui – identico tranello d’amore: “Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete” (Gv 21,6). Uguale inettitudine nello sguardo: a nessun di loro venne in mente d’essere ancora dentro quella storia. Ancora, sempre, per l’eterno.
La rete s’impingua di pesci d’ogni specie, traballa la barca, s’accende la memoria: “È il Signore!” (Gv 21,7). Lo stesso di mesi addietro: della battigia, del Golgota, del Cenacolo. Dà loro un ripasso di storia: prende il pane – pure il pesce pescato – e lo spande. Divide, sazia, appaga: faranno questo in memoria di Lui. A favore di tanti, di molti, di tutti: che nessuna barca sia senza la festa della pesca. Mai più.
Masticano e lo guardano: “E’ lui” – sembrano dirsi. Ma tacciono: mangiano e pensano, ripensano, ci pensano. Lui lo punta, con la forza delle ore imperiali. Lì, addosso ad un braciere col profumo di pesci arrostiti e spezie di ricordi. Con la sorpresa a mò di ripasso dei giorni spesi assieme a battere sentieri impensati: “Simone di Giovanni, mi vuoi bene tu più di costoro?” (Gv 21,15) S’apre la memoria: un altro fuoco, la sbandata al chiacchiericcio di quella serva. Le promesse d’un tempo, quel cuor di marinaio mai lasciato, l’arroganza del “non lo conosco”. Eppur il cuore gli batte. Vorrebbe dirglielo, teme d’apparir voltagabbana. Si destreggia come meglio può, è pur sempre Rabbì l’Uomo di fronte: “Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene” (Gv 21,15). S’appella all’onniscenza dell’Amico: “tu lo sai”. E gioca di modestia, almeno stavolta: voler bene non è amare, ma è pur meglio della villania.
Daccapo: “Simone di Giovanni, mio vuoi bene?” Il Maestro duplica e il pescatore dà d’imbarazzo: rivanga la storia da Cafarnao al Cenacolo, fin sotto la Croce. Con Andrea, da solo, in compagnia. Lassù sul monte, appresso al fuoco, a dar di gambe dietro il cenacolo. Il canto del gallo, il chicchirichì della coscienza. Vola come pesca, a pelo sull’acqua Pietro: “Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene”(Gv 21,16). E’ ancor bene, non ancora amore: anche se il cuore traballa. Scricchiola.
Ancora Lui, perdutamente invaghito: “Simone di Giovanni, mi vuoi bene?” Ancora lui, pescatore strafalcione. Non più pesca, non più mezze misure, non più tentennamenti: “Signore, tu sai tutto; tu sai che ti amo” (Gv 21,17). Finalmente: quaranta giorni s’arrestò da Risorto. Ancora battigia, ancora reti, ancora pescatori: tre volte foresto, tre volte amato. Tutto sa quell’Uomo: anche dell’amor fugace di chi tradisce. E’ che certi amori è bello, pur di passare per puerili, sentirseli dire e dare di petto. D’anima, col cuore: “Ti amo, Signore”. Impulsivo, tormentato, geloso: s’è ficcato in mille casini, è riemerso d’altrettante confusioni. Scrissero assieme la loro storia d’amore, sempre di pancia, d’anima, di cuore: «Vivere intensamente comporta ogni sforzo e quasi ogni sacrificio. Vivere a metà è sempre stata la funzione e il castigo dei mediocri» (R. Dìez, scrittore argentino).
Stamane lo sguardo scivola laggiù: certi ritorni sono per nuove partenze. L’idillio di quel sole a perpendicolo sul mercato è di pochi attimi: il tempo di un accredito – “Seguimi” (Gv 21,19) – e la vecchia rete tornerà a rammendarsi, a stropicciarsi tra i chiodi, a vagheggiar pesche non più pesche. Laggiù, scorticata come le casupole di Cafarnao, una vecchia pianta sta già invecchiando. L’hanno segnata i boscaioli col rosso del colore: sarà la prossima a venir segata. Ancora una Croce: stavolta l’uomo starnazzerà a testa in giù. Come nelle più splendide storie d’amore, laddove si muore come si nasce.
Abbracciati, seppur opposti.
(da M. Pozza, L’imbarazzo di Dio San Paolo, 2014)