Eugene Burnand figlio prodigo Padre in attesa
Due figli: uno resta, l’altro va. Ma nessuno dei due aveva veramente imparato ad essere figlio, perché anche il maggiore viveva in casa propria, con il proprio padre, ma come se fosse ospite. Peggio: si vedeva unicamente come lavorante, presso un padrone esigente.
Nessuno dei due è  veramente coraggioso, perché nessuno dei due riesce ad apprezza ciò che ha, anche se hanno reazioni diverse: ma entrambi necessitano di “ritrovare la vera via di casa. Né riesce ad affrontare, faccia a faccia, ciò che si cela nella profondità del proprio cuore: uno preferisce accantonarne le inquietudini, l’altro assecondarne i capricci. Per questo, entrambi hanno bisogno di ritrovare la strada del ritorno.
Il primo non ha il coraggio di affrontare il padre in un rapporto ormai inesistente, forse perché accomunato più dal lavoro che da ogni altro fattore, ma preferisce non abbandonare il tetto domestico, simbolo delle sue sicurezze e garanzie. Il secondo, invece, sceglie di fuggire dai problemi, inseguendo la chimera, promettente ed allettante, di false libertà all’orizzonte, piuttosto che affrontare un padre sentito ormai scomodo, opprimente ed inopportuno.
Due figli: entrambi cocciuti, ripiegati sulle proprie posizioni e poco disponibili a ragionare.
Uno sceglie di conoscere il mondo ed accettare il rischio della libertà. Fino ad esserne schiacciato. Ebbro di gozzoviglie di ogni tipo, pare come svuotato del proprio vero sé, fino a che la “goccia che fa traboccare il vaso” lo fa rinsavire: dopo essersi trovato a dover litigare le carrube coi porci, pare comprendere, finalmente, cos’abbia perso. La sua dignità di figlio. Accortosi della sua preziosità, dispera di poterla riacquistare a buon prezzo, consapevole della sua colpa, ma, al contempo, rinnova la sua fiducia nella generosità paterna. Ed è così che, ancora ammaccato, facendo mente locale, finalmente si rende conto di quello che aveva perso. Rientrato in se stesso, si rende conto di quanto aveva sempre avuto, a portata di mano, sotto i propri occhi, ma non aveva valorizzato, forse, perché si sentiva ingabbiato da una geografia troppo minuta per la sua voglia di esplorare. Forse, il motore determinante sarà la fame e non altre considerazioni, fatto sta che quei piedi di figlio si incamminano verso quel cuore di Padre disposto ad un benedicente abbraccio di perdono, nei confronti di quel figlio perduto.

L’altro, il maggiore, sulle prime, pare un’acqua cheta: non chiede nulla al padre, lavora la terra e pare aspettare, senza fretta, il momento in cui potrà ricevere l’eredità che gli spetta (la parte principale, essendo il primogenito, come prevedeva l’usanza dell’epoca, condivisa fino alle nostre latitudini fini al secolo scorso). Ma questa è solo apparenza: il ritorno del “figliol prodigo” mette in evidenza il malessere del primo. Il modo in cui sbotta con il padre, al vedere il figlio minore che, dilapidato il patrimonio, se ne tornava a casa ed era servito e riverito come se avesse vinto la guerra. Del resto, Cristo, tra i confratelli d’apostolato, si trovò spesso a redimere litigi per spartirsi i posti migliori, tanto che, persino dopo la Resurrezione, dovette ammonire Pietro, la “roccia” (in tutti i sensi”, con un perentorio: “Se io voglio che lui rimanga, a te che importa?” (Gv 21, 22). Ma se uno non ha nulla da temere e vive con serenità il proprio ruolo, non dovrebbe avere motivo di patire invidia nei confronti del proprio fratello. Quindi, é chiaro che quell’invidia segnala un malessere latente, che covava sotto la cenere, ma era presente nella quotidianità del lavoro e della condivisione familiare: il figlio maggiore non si sente adeguatamente gratificato per ciò che fa e ciò che è. Per questo, si sente “fuori posto” e reclama, anche se in modo diverso dall’altro fratello, la propria parte (il “capretto per far festa con gli amici”), perché non scorge, nella condivisione della mensa, la possibilità di avere tutto ciò di cui ha bisogno. Neppure della necessità di riconoscimento del primogenito si dimentica, però, il Padre: la festa non può essere completa, senza di lui ed egli si mette sulle sue tracce per consolare quel cuore ferito.
Due figli diversi, ma entrambi, a proprio modo, persi nella ricerca di se stessi e concentrati solo su ciò che li riguarda. Uno parte, l’altro resta; entrambi, però, non sono capaci di comprendere l’enorme amore di cui sono riversati e hanno bisogno dell’abbraccio del Padre per poter fare ordine nella propria vita.
Sarà per questo che, giustamente, negli ultimi tempi, di preferisce titolare questa parabola come “Il Padre misericordioso”. Più dei figli, infatti, protagonista è la misericordia di un padre che non di arrende alla perdita, incalza, aspetta, consola, ricerca e non dimentica nessuno, neppure quel figlio che, nonostante gli fosse accanto, era in realtà distante anni luce, come Trappist-1. Infatti, pur non essendo stato richiesto da entrambi , bensì solo dal secondogenito, il padre fa più di quanto richiesto: non soltanto dà al secondo quanto gli spetta, ma “divise le sostanze”, anticipando, quindi, la ricezione dell’eredità, per entrambi, forse, proprio nel tentativo di evitare contese, litigi e gelosie fraterne.
Ecco quindi che questo amore di Padre diventa paradigma dell’amore-vero, quello che è il sogno di ogni uomo, quello che canta Paolo in 1 Corinzi 13: la tenerezza infinita di chi, precedendo ogni nostra mossa, in attesa di noi, spiana già la strada del nostro ritorno a casa, testimonianza di fiducia nel nostro ritorno – ipotetico, rendendolo possibile.


Vangelo dell’Ultima domenica dopo l’Epifania (“del perdono”), Anno A, Rito Ambrosiano : Luca 15, 11 – 32

 

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