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L’episodio tratto dal libro dei Maccabei è la narrazione vigorosa e sollecita di un martirio, vissuto, per altro, con gli occhi della madre di questi sette fratelli, di cui si tenta una conversione forzata.
Colpisce un ritratto materno esaustivo in un (solo apparente) ossimoro: si dice infatti che ella tempra la tenerezza femminile con un coraggio virile (2Mac 7, 21). Quale madre non corrisponderebbe a tale descrizione? Sembra quasi che il compiersi del divenire madre renda le donne ancora più coraggiose, trasformandole in vere e proprie leonesse, pronte a tutto per il proprio cucciolo, a maggior ragione se questo è particolarmente debole o fragile e bisognoso del supporto genitoriale per sopravvivere. Non è naturalmente il caso di questi fratelli che, non solo sono nel pieno del loro vigore fisico, ma dimostrano una fortezza morale fuori dall’ordinario; ciononostante, la loro madre non manca di fornire loro il proprio supporto, con una preghiera-invocazione, tutta da incorniciare, per la profondità sapienziale che essa contiene:

«Non so come siate apparsi nel mio grembo; non io vi ho dato il respiro e la vita, né io ho dato forma alle membra di ciascuno di voi. Senza dubbio il Creatore dell’universo, che ha plasmato all’origine l’uomo e ha provveduto alla generazione di tutti, per la sua misericordia vi restituirà di nuovo il respiro e la vita, poiché voi ora per le sue leggi non vi preoccupate di voi stessi» (2Mac 7, 22 -23)

Nonostante ogni madre (e questa, senz’ombra di dubbio) abbia sempre motivo di essere orgogliosa dei propri figli, ella riconosce il mistero che si cela nella vita nascente e la sua origine divina proprio per l’incapacità, da parte propria, di essere pienamente protagonista nella formazione di una nuova vita. Se ora possiamo meravigliarci dell’inizio della vita, dai primi istanti del concepimento al lento formarsi nel grembo materno di una nuova creatura, con affascinanti immagini video, all’epoca del libro dei Maccabei (siamo nel 167 a.C.), sicuramente, queste possibilità non c’erano sicuramente. Dal punto di vista materno, si tratta di ascoltare la vita che palpita dentro il proprio grembo, i primi calci, i primi movimenti. E, per quante volte ciò possa ripetersi, l’emozione non sarà mai la stessa.
Non si ferma qui, però: non solo Dio è datore di Vita, capace di formarne una nuova. Ma, al contrario dell’uomo, che è solo in grado di toglierla, Dio, nella sua misericordia, è in grado di restituire il respiro che è vita.
Fiduciosa in Dio, non ascolta il consiglio del re e preferisce il martirio, per i suoi figli e, ultima, anche per sé, piuttosto che piegarsi alla violenza del tiranno. Non dobbiamo infatti bollare questo episodio come “fanatismo religioso”, cullati dal pensiero che “insomma, avrebbero anche potuto cedere e mangiare il maiale”. Non c’è in gioco solo un divieto, che può essere fine a se stesso. C’è in gioco una fedeltà ad un impegno, ad una persona, a Dio, tutte parole che paiono quasi fuori moda, oggi, ma, senza le quali non ci è possibile cogliere il vero senso della prima lettura.
Quale insegnamento danno, ancora oggi, questa madre, così come i martiri dei nostri giorni, disposti a dare la vita, pur di non tradire, a tanti nostri comportamenti pusillanimi e meschini! Ci è difficile accettare anche i piccoli martiri quotidiani, sul posto di lavoro o tra amici, tanto quanto ci è facile gridare alla discriminazione, anche quando non ne avremmo neppure motivo.

«Noi abbiamo questo tesoro in vasi di creta, affinché appaia che questa straordinaria potenza appartiene a Dio, e non viene da noi» (2Cor 4,7): la metafora del vaso ci riporta, necessariamente, ad un vasaio, capace di costruire ciascuno, secondo la proprio forma. La creta suggerisce la fragilità, che abbiamo toccato con mano, in modo particolare, negli ultimi giorni: basta una distruzione, un po’ d’incuria, o il dispiegarsi della forza della natura a spezzare delle vite.
Quello che segue è l’elenco della resilienza fatta carne, diremmo oggi:

«In tutto, infatti, siamo tribolati, ma non schiacciati; siamo sconvolti, ma non disperati; perseguitati, ma non abbandonati; colpiti, ma non uccisi, portando sempre e dovunque nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo»(2Cor 4, 8-10).

Morte e vita sono mischiati, in noi, così come, in virtù del libero arbitrio possiamo compiere il bene oppure il male. Eppure, conteniamo qualcosa di prezioso, un tesoro. È bello anche il motivo per cui il tesoro è in vasi di creta: per non gonfiarci di superbia, illudendoci di essere dei supereroi. Solo la fiducia, invece, riesce a darci quella libertà per cui agire “come se tutto dipendesse da noi, ma pregare come se tutto dipendesse da Dio”. Forse in modo un po’ grezzo, ma credo che questa sia la prospettiva vitale del cristiano: completamente affidato alle mani di Dio, ma al contempo immerso nel mondo ed impegnato nel renderlo migliore.

Il Vangelo, dal capitolo 10 di Matteo, riprende l’apparente paradosso della fragilità del corpo. L’invito a non temere chi ha il potere di uccidere (solo) il corpo non può essere letto solo come platonico svilimento del valore del corpo, bensì come invito a riconoscere la sovranità di Dio su ogni aspetto della vita, memori che è a Lui che dovremo rispondere anche delle nostre scelte “civili”. Non possiamo essere cristiani solo per un’ora alla settimana, se andiamo a Messa. È nel nostro quotidiano che misuriamo l’adesione a Cristo e la fedeltà al Vangelo.

(Rif: letture festive ambrosiane nella Domenica che precede il Martirio di San Giovanni il Precursore: 2Mac 7,1-2.20-41; 2Cor 4, 7-14-, Mt 10, 28-42)


Fonte immagine: youtube

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