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Ogni volta che un parto restituisce un nuovo figlio agli uomini, è come se si fendesse la terra, restituendo i nuovi germogli al tempo della primavera. Ogni volta, lo stesso miracolo, ogni volta un miracolo differente.  
Sì: miracolo! 
Non è semplicemente la natura che fa il suo corso. Innanzitutto, perché non è scontato che ogni gravidanza sfoci in una nuova vita che strilla, con la prepotente forza di quei giovani polmoni, il proprio essere al mondo. Secondariamente, perché testimonia, una volta di più, che, nonostante tutto, “Dio non si è ancora stancato degli uomini” e che, provvidente, continua la propria opera di creazione, mettendosi “in società” con i genitori, rinnovando il creato, nel quotidiano risveglio di una natura mai del tutto assopita, nemmeno nel torpore dell’inverno.  

Già appena dopo aver fatto capolino dal grembo, i paragoni si sprecano: gli occhi “della mamma”, il naso “del papà”, le guanciotte “come il nonno”, l’espressione furba come la zia. Quasi senza volerlo, quasi senza nemmeno accorgersene, il pupo è già stato trasformato in una sorta di “puzzle familiare”, di cui ciascuno rivendica, inconsapevolmente o meno, la tessera più ragguardevole e prestigiosa, per potersi gloriare, come a Risiko!, di essersi accaparrato il territorio più prestigioso ed ambito. 

Già allora, lì in agguato, tra queste affermazioni, inizialmente timide e discrete, poi sempre più sfacciate, c’è la grande tentazione: vedere, in quel cucciolo d’uomo un mini-me. Qualcuno da ridurre a propria immagine e somiglianza, da attirare verso i propri gusti e le proprie passioni, da addestrare al proprio lavoro. Un figlio, come uno specchio delle brame. A cui instillare qualcosa di sé, da cui aspettarsi il meglio, per cui pretendere il meglio.  

Come coltello nella carne, s’incunea la Scrittura liturgica a risvegliare i sensi intorpiditi e a richiamarci all’alto compito educativo, proprio d’ogni uomo su questa terra (nessuno escluso!): 

«E voi, padri, non esasperate i vostri figli, ma fateli crescere nella disciplina e negli insegnamenti del Signore» (Ef 6,4). 

Esasperare. In che modo si può esasperare un figlio? Possiamo davvero esasperare ancora i nostri figli, in un’epoca in cui – ci dicono – hanno tutto e non siamo in grado di dire di no a nessuna delle loro richieste? 

Io credo che capiti molto più spesso di quanto ci illudiamo di pensare. È vero che, molto spesso, accarezziamo l’illusione che l’amore die nostri figli possa essere intaccato da un no in più od in meno e temiamo di pronunciarne piuttosto uno di più che uno di meno. Tuttavia, è altrettanto innegabile come, strisciante e inavvertibile come fiume carsico, questa tentazione si riverbera in tanti nostri pensieri, anche quando non affiora in modo evidente.  

Quante volte guardiamo ai nostri figli, come a una conseguenza (diretta) della nostra educazione?  
Quante volte ci ritroviamo a pensare di dover garantire loro qualcosa, esclusivamente perché a noi è mancata?  
Quante volte la cifra delle nostre scelte non si basa sui valori di bene, verità, giustizia, ma si lascia condizionare dalle scelte degli altri, guidata dalla preoccupazione che possano sentirsi “diversi”? 

Ogni figlio d’uomo è una creatura nuova, unica, per cui Cristo è stato messo in croce, affinché fosse redenta dal Suo sangue. Ogni nuova creatura ha potenzialità, caratteristiche, gusti differenti. Il fatto che sia nato in una famiglia, piuttosto che in un’altra non sarà mai indifferente, ma non potrà mai avere l’ultima parola su di lei. E, anche se quegli occhi ti ricorderanno scorribande infantili, quelle mani saranno un dolce promemoria di ricordi felici, dovrai andare oltre.  
Dovrai accorgerti che il suo sguardo è già più lontano. Il suo futuro non è nelle tue mani. La sua storia non è la tua: non basterà neppure la migliore delle educazioni impartibili a fare di lui un uomo o una donna come te o migliori di te.  
C’è qualcosa che oltrepassa te e lui. Il mistero di andare oltre ogni definizione, così da sorprenderti con qualcosa non è richiudibile negli spazi angusti di un gioco delle somiglianze, la cui fine arriva ben presto. Allo scoprire nuove attitudini, nuovi gusti, così come nuove abilità. 

Quindi la soluzione sarebbe non educarli affatto? Assolutamente no: fateli crescere nella disciplina e negli insegnamenti del Signore

Nel mistero dell’ineffabilità di un figlio, che già a dodici anni, come Gesù nel tempio, diventa sgusciante, inafferrabile, imprevedibile, non c’è solo la resa assoluta.  
C’è la pazienza ineludibile del contadino che uscì a seminare. Con ogni tempo, con ogni avversità, con ogni frustrazione.  
Il contadino uscì a seminare, nella consapevolezza che stava spargendo il seme buono e che, prima o poi, a suo tempo, produrrà. Dove il 10, dove il 20, dove il 30, dove il 100 per uno.  


Rif. Seconda lettura festiva ambrosiana, nella Festa della Sacra Famiglia  

Fonte: Wikimedia

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