Adamo pecca. Eva pecca. L’uomo e la donna dimostrano di non amare la verità e si lasciano abbindolare dalle lusinghe della lingua biforcuta del serpente. Un monito ancora oggi attuale: «Pensa, prima di parlare. Ricorda quanto ti è stato detto, non illuderti di aver capito e di poter parlare».
Il serpente domanda alla donna, innanzitutto, se sia vero che non possano mangiare di nessun albero del giardino. La donna lo corregge, dicendo che il divieto non si estende a tutti gli alberi, ma si limita a quello “in mezzo al giardino”, di cui non possono “né mangiare né toccare”.
Ma era davvero questo il monito di Dio all’uomo? Siamo sicuri? È giusta questa ricostruzione che Eva compie? Potrebbe apparire di sì. Ma proviamo a verificare.
Quasi come se si trattasse di un frammento emerso dal passato, proviamo a pigiare il tasto “indietro”, come quello dei registratori a nastro che hanno fatto a tempo a vedere i matusa come me e torniamo al capitolo precedente: «Mangia pure da ogni albero del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non ne mangiare; perché nel giorno che tu ne mangerai, certamente morirai» (vv.16-17). Vediamo subito che non è proprio uguale. È anche vero che questa frase è pronunciata quando Eva non c’era ancora? Effetto telefono-senza-fili? Innanzitutto, l’albero della conoscenza del bene e del male non si dice stia in mezzo al giardino. Secondo, che non lo possano neanche toccare è un’aggiunta (è il caso di dirlo!) “di sana pianta” di Eva (o: così le era stato, a propria volta, riferito?). Fatto sta che non l’aveva detto Dio.
È affascinante realizzare come, anche oggi, questa dinamica sia enormemente diffusa, quasi ad attestare come il “peccato originale” sia, in un certo qual modo, inscritto nelle nostre viscere. Molto spesso, ci imponiamo un giogo superiore al necessario o attribuiamo a Dio qualcosa che va oltre i suoi dettami. Di questo episodio, purtroppo la liturgia toglie l’ultimo versetto, che è di una delicatezza infinita. Abbiamo letto, infatti, in questo passaggio, che Adamo ed Eva, scopertisi nudi, intrecciano foglie di fico per coprirsi. È interessante soffermarsi sul momento preciso della scoperta. Su quell’allora (Gen 3, 7): non cambia il loro status. Nudi erano e nudi sono. A cambiare è il loro sguardo. Il loro sguardo su di sé e sull’altro da sé fa sì che la nudità si sia trasformata in un problema. E provano a porvi una soluzione, tramite foglie di fico: sempre meglio di niente, giusto? Ma il meglio c’è. E quello che stupisce è proprio il momento in cui arriva. Dopo la punizione, dopo l’allontanamento dall’Eden. Quando, in una situazione umana, dovremmo pensare che la rabbia abbia annebbiato la mente e l’abbia resa incapace di pensare all’uomo come una creatura da amare, abbiamo quella pennellata d’artista che evidenzia che i miei pensieri non sono i vostri pensieri (Is 55, 8) e che, già nell’Antico Testamento si cela ciò che nel Nuovo diverrà palese: la paternità di un Dio che, di fronte all’uomo che gli ha voltato le spalle, facendogli dire ciò che non aveva detto, nell’illusione di “essere come Dio”, si preoccupa per lui, perché «fece all’uomo e alla donna tuniche di pelli e li vestì» (Gen 3,21).
Da Adamo a Gesù Cristo. In questi due nomi, s’incardina il disegno di salvezza dell’Eterno.
Un disegno che affonda le sue radici prima dell’inizio dei tempi. Il volto dell’uomo, in Cristo, aveva da sempre abitato il cuore di Dio. Ildegarda di Bingen, dottore della Chiesa, così ne parla: «nella perfezione delle opere di Dio, vi fu l’antica decisione di salvare l’uomo»[1], precisando che «Dio lo fece secondo la forma della carne umana, che il Figlio suo senza peccato doveva vestire, […] che Dio conosceva prima dei secoli»[2]. Sembra una sfumatura, ma è qualcosa di più. Evidenzia come Dio, sin dalle origini abbia pensato alla salvezza dell’uomo, tramite l’Incarnazione del Verbo di Dio. Sin dalle origini, significa prima della creazione e del peccato di Adamo. Anzi, qualcosa di più: la prospettiva è ribaltata: Adamo è creato, avendo come modello Cristo. Perché, se Adamo è nella storia, Cristo è oltre la storia, perché, in quanto Dio, è fuori dal tempo: Cristo è dunque modello non solo per un motivo squisitamente cronologico, ma essenziale. Il mondo intero è stato creato, non solo per mezzo di Lui (Logos come parola creatrice di Dio), ma anche «in vista di lui» (“propter Verbum”, cfr. Col 1, 17), cioè avendo Cristo stesso come fine ultimo, cui tendere.
Adamo ed Eva, al principio. Noi, oggi. Il peccato, entrato nel cuore dell’uomo con quel subdolo desiderio di essere “come Dio” (con il sottotesto che, forse, Dio ci stava sottraendo qualcosa) può essere sconfitto in un solo modo: dall’uomo-Dio Cristo Gesù che, facendosi lui come noi, perché noi possiamo diventare come lui, rende possibile, tramite la grazia, quello che sarebbe rimasto impossibile se richiesto come un (millantato) diritto.
[1] Vd. Originale: HILDEGARDIS BINGENSIS, Liber Divinorum Operum, IV visio, III partis, cur. A. Derolez, P. Dronke (Corpus christianorum continuatio Mediaevalis 92), Turnholti 1996
[2] HILDEGARDIS BINGENSIS Liber diuinorum operum, II,1,43, cur. A. Derolez, P. Dronke [CCCM, 92], Turnholti 1996, pp. 328-329; per la traduzione cfr. ILDEGARDA DI BINGEN, Il libro delle opere divine, a c. di M. Cristiani, M. Pereira, Milano 2003
Fonte immagine: Genesi biblica
Vedi: Genesi capitoli 2-3 , dalla prima lettura della III domenica di Pentecoste, secondo il Rito Ambrosiano
Per chi volesse saperne di più, rimando a una breve sintesi di Papa Benedetto XVI, a cui si deve la sua canonizzazione e conferimento del titolo di dottore della Chiesa (due anni dopo queste due udienze, del 2010):
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