Dio si presenta come Unico e Immutabile e porta “le prove”: la storia d’Israele, di cui si è preso cura da sempre. Poi, però, avviene come una cesura, li invita a guardare avanti: ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete? (Is 43,19). Riporta alla mente la gioia, la meraviglia e lo stupore che nascono dal vedere la terra produrre nuovi germogli, commestibili o meno: una nuova vita che nasce provoca sempre un moto di gratitudine nel cuore, qualunque essa sia e al di là della sua, immediata oppure futura oppure – apparentemente – nulla, utilità per l’uomo.
San Paolo, nella sua lettera ai Corinzi, rimane in tema naturalistico, riprendendo il lavoro contadino, per illustrare l’opera degli apostoli. Campo diventano allora le persone, i Corinzi in questo caso, e lavoratori sono gli apostoli con i loro collaboratori. Come spesso accade, il lavoro dell’uno è messo a confronto con quello dell’altro, arrivando a partorire paragoni non lusinghieri, spesso basati unicamente su simpatia od altri criteri lungi dall’essere oggettivi. in risposta a questo, l’apostolo richiama:
“Fratelli, io ho piantato, Apollo ha irrigato, ma era Dio che faceva crescere. Sicché, né chi pianta né chi irriga vale qualcosa, ma solo Dio, che fa crescere” (1Cor 3,6)
Si tratta di un ricordo ancora oggi sempre valido, da entrambe le parti. Da una parte, il rischio, è di creare “circoli religiosi”, intorno ad un’autorità spirituale che, per quanto illuminata, saggia o sapiente, deve sottostare al Verbo e non illudersi di amministrare il popolo di Dio, sfruttando i propri carismi, per la propria gloria personale. Ogni lavoro, per il Regno, rimane un servizio reso a Dio e al Suo popolo e non può ridursi a mera autoincensazione, mascherata da dono.
Dall’altra, in primis, il fedele è chiamato a ricordare in cosa consista il centro della fede e a non abbandonarsi a culti della persona che mal si attagliano ad un cristiano (che solo a Dio dovrebbe rendere culto, non alle persone!). È Dio la Roccia a cui appoggiarsi, quella da cui scaturisce l’Acqua Viva e le persone che si mettono a Sua disposizione diventano Suoi strumenti, più o meno preziosi, per la nostra santificazione, ma – non necessariamente – migliori di noi e – dunque – soggetti all’errore.
Ecco perché, alla luce di questo, diventa imprescindibile coltivare la correzione fraterna. Infatti, poco oltre, segue un richiamo che è inevitabile vedere rivolto, anzitutto, a chi ha un ruolo istituzionale, all’interno della Chiesa. «Ciascuno stia attento a come costruisce. Infatti nessuno può porre un fondamento diverso da quello che già vi si trova, che è Gesù Cristo» (1Cor 3, 9-10) ammonisce Paolo, con una precisazione che non è mai fuori luogo e non lo è – forse – soprattutto ai giorni nostri. Innanzitutto, si tratta di ricordare che il centro della vita cristiana ed il primo riferimento di ogni cristiano è Gesù stesso, con la Sua Parola. Tutto il resto ne è corollario. Talvolta, rischiamo di organizzare tante cose (attività per giovani e adulti, eventi culturali, sociali e sportivi), ma di dimenticarci in nome di Chi lo facciamo. È un po’ come riempire un figlio di regali, ma dimenticarsi di parlare con lui e prestargli attenzione: senza questo, tutto ciò che facciamo per lui perde la sua importanza!
La Parabola (Mt 13,24-29) che ci offre il Vangelo è pane quotidiano per chi si spende in ambito educativo, qualunque sia l’ambito. Che siano figli, studenti, sportivi o anche adulti a noi affidati, ogni educatore si scontra – giocoforza – con quella libertà che è, al contempo, limite ed opportunità, come ben evidenzia il brano del grano buono e della zizzania. Di fronte alle difficoltà, al male, ai pericoli, la più grande tentazione è quella di “sostituirci” alle persone che amiamo, per evitare loro di sperimentare l’amaro calice della frustrazione e del fallimento. Vedendone le enormi potenzialità, non solo vorremmo che anche loro vedano quello che vediamo noi, ma anche eliminare tutto ciò che impedisce loro di farlo. Invece, non è possibile: è solo tramite l’esperienza personale che si può crescere davvero e nessuno può fare esperienza al posto di un altro; il solo accarezzare una simile idea è sintomo di un sentimento distorto, in cui una malintesa idea di protezione ci spinge a togliere all’altro il bene più prezioso che possiede, cioè la libertà di giocarsi la propria vita.
La domanda sul perché esista il male e dove ne sia l’origine ci attanaglia, forse da sempre. La parabola ci esorta tuttavia, soprattutto, a guardare non il male in senso astratto, ma quello che ci è più vicino: cioè, quello che è dentro di noi. Almeno una volta nella vita, probabilmente, una domanda ci ha colto tutti, vale a dire: «Perché confessarsi? Dico sempre le stesse cose? Non è una perdita di tempo?». Se, davvero, incontriamo una ripetizione nel male che compiamo, è in un certo senso, ancora più grave di un male episodico, perché significa che è diventato un’abitudine. E le abitudini sono sempre più difficili da sradicare degli episodi occasionali. È importante, allora, studiare con cura quale sia il problema ed affrontarlo nella maniera più corretta, per evitare, come si suol dire, di “gettare il bambino con l’acqua sporca”, distruggendo, cioè, anche il bene, nel tentativo di annientare il male.
La terza parabola riguardo al regno di Dio (Mt 13, 33), quella del lievito, ha sempre un duplice aspetto. Da una parte, risulta senz’altro ambiziosa, nei riguardi di chi vuole essere cristiano, perché lo esorta a fare la differenza e non accontentarsi di essere una brava persona, che non sta antipatica a nessuno: il Vangelo pretende, infatti, alle volte, anche di essere impopolare e di andare controcorrente. Gesù stesso, del resto, spesso, non è stato capito o è stato emarginato dai contesti più stimati del proprio tempo. Dall’altra, però, rimane rassicurante e ci guarisce dalla smania dei grandi numeri: il lievito non ha bisogno di essere maggioranza per far cambiare lo stato delle cose. Ritornando al promemoria paolino, è più importante riunirsi (anche solo due o tre), ma in nome Suo, piuttosto che lasciarsi prendere dall’ossessione del fare, trasformando le nostre parrocchie in una sorta di “agenzia di servizi”, dove però Cristo, l’essenziale, rischia di diventare il grande assente.
(Rif: letture festive ambrosiane nella VII domenica dopo il Martirio di San Giovanni Battista)
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