melaTutto era pronto. La vita di famiglia, trent’anni, aveva avuto luogo. La vita pubblica, tre anni, aveva avuto luogo. La vita di casa, il banco di lavoro e la morsa, la sega e la pialla, era finito, questo era stato fatto. La vita di popolo, la montagna e la pianura, e il lago di Tiberiade, la predicazione e le similitudini, la cura delle parabole lungo le strade, era finita; questo era stato fatto. Tutto era pronto. Il coronamento stava per aver luogo. Tutto era pronto. Tutte le virtù private e pubbliche, tutte le virtù eroiche dei trent’anni e tre anni stavano per culminare nel sacrificio supremo. Durante anni e anni l’albero della croce, con una pazienza tutta naturale, senza alcun miracolo aveva preparato la durezza del suoi legno. Tutti erano pronti: attrezzi, uomini e strumenti vari. Anche Giuda era pronto e il bacio saliva sulle sue labbra. Il bacio che s’aspettava dai secoli dei secoli, il bacio che si perpetuerà come sigillo di ogni umano tradimento.
Ma nella fantasia di Gesù mancava un gesto: umano, troppo umano, per questo tremendamente divino: il suo testamento. Certo, perché una vita di scandali non poteva finire senza provocazione.
A me piacerebbe tanto sapere che cosa compresero quelli che or ora avevano avuto parte di quel corpo e di quel sangue. Il Figlio dell’Uomo era lì, adagiato al centro della tavola, e nello stesso tempo ciascuno lo sentiva fremere dentro di sé, palpitare, bruciare come una fiamma che sapeva di refrigerio e di delizia. Per la prima volta sulla faccia della terra si stava compiendo un prodigio: possedere la persona che si ama, incunearsi dentro di lei, diventare un tutt’uno con il desiderio d’amore. E’ dalle parole pronunciate da Gesù subito dopo che noi possiamo misurare l’amore che traboccava nei discepoli – impauriti e innamorati allo stesso tempo – poiché li chiama “figlioli” pur essendo uomini rudi e nel vigore della loro età. “Prendete, questo è il mio corpo” , “Prendete, questo è il mio sangue” (liturgia della Solennità del Corpus Domini). Mai aveva parlato loro come in quella notte. Essi intuiscono che il loro amico è Dio e che Dio è amore. E chi, in anteprima nello schermo della storia, ha posato il capo sulla spalla del Figlio dell’Uomo, custodirà per sempre ogni parola.
M’incuriosice la domenica scavare nei volti di chi s’accosta al sacerdote per ricevere la comunione: timore e confidenza, abbandono e rimorso, vergogna e amore. La piccola Ostia spande una luce uguale e terribile sulle azioni irreparabilmente compiute dal peccatore che le si accosta, su ciò che ha fatto e che, ormai, non può più non aver fatto. Nessuno può dire di conoscere se stesso se non filtra i suoi lineamenti alla luce di quel pane consacrato. Forse non te ne rendi conto, ma ti conquista la sublimità d’ispirazione in quelle parole messe sulle labbra del celebrante e del fedele: “Signore, io non sono degno che Tu entri sotto il mio tetto, ma dì solamente una parola”. Preghiera sempre esaudita fin dal primo giorno nel quale Cristo la sentì sussurrare tra le stradine di Cafarnao per bocca di un centurione.
Cioè tu sei partecipe in presa diretta di un Cristo che cerca nascondiglio nel tuo petto, che s’insinua nei tuoi pensieri, che sveglia il tuo torpore. L’eucaristia! L’emozione di un Dio che ti raggiunge come sei: peccatore e schiavo, menefreghista, codardo e marcio. Sporco, splendido e irriverente. Stupito, stupido o ignavo. Non importa: Cristo entra! A volte sento le mani tremare nell’atto della consacrazione: il gesto massimo del sacerdote. Senti sulle spalle incurvate il peso del divino, la tenerezza della tua debolezza di uomo, la potenza di un mistero inafferrabile. Che ti rapisce liberandoti. Nelle tue mani sporche, il Corpus Domini. A volte mi smarrisco negli occhi di chi s’accosta alla comunione: lo stupore e l’abitudine, l’emozione e l’attesa. La noia, la malinconia e la svogliatezza. “Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno” (Gv 6,51). Peccato che a questo pane ci siamo abituati: cioè non ci dice più nulla. Qualcuno balbetta un amen “in calare”, qualcun altro si scoccia del disturbo, qualcuno lo imbocca come una caramella. Qualcuno ci crede davvero e, quasi, lo vedi piangere. Singhiozzare. Vedi una lacrima attraversargli lo sguardo ridente e fuggitivo. Perché questa è l’Eucaristia: lasciarsi andare, afferrare e strapazzare dall’onda di Gesù Cristo. Percorrere sentieri inediti, tracciare percorsi di fantasia, capovolgere i tuoi programmi. Chi celebra l’eucaristia si sente più libero, sa di essere uomo ma non più uomo. Sa di non meritare l’eucaristia – “O Signore, non son degno di partecipare alla tua mensa…” – ma conosce quell’abbraccio che ti fa ripartire, che ti rimette in cammino, che traduce la debolezza in potenza inaudita. Chi crede nell’Eucaristia non sta con le mani giunte, ma tiene le maniche rimboccate. Se la testa è leggermente inclinata non è per deviante misticismo, ma per intraveder nelle fessure strade nuove in cui lanciarsi. Perché nel profumo di quel pane spezzato annusa la forza del sogno. Diventa un insoddisfatto. Un insofferente delle mezze misure. Uno deciso a perdere tutto pur di tentare l’avventura della nudità più povera di fronte a Dio. E quando c’è di mezzo Dio sognare è un dovere. Perché il sogno ti permette di immaginare una realtà diversa, perché impedisce di dormire. Il sogno ti sveglia, ti mette in piedi. Quando nel mondo è accaduto qualcosa di nuovo, è avvenuto grazie a dei sognatori terribili, inguaribili, che si ostinavano ad immaginare una realtà diversa. Nuova. Fuori dalla banalità.
Ma tu ci pensi che tutti i delitti che porti nel tuo cuore nel momento in cui abbracci quell’Ostia non sono più tuoi? Un Altro li ha fatti suoi dopo che il suo perdono è sceso nell’anima con le parole del sacerdote? Come il centurione anche nell’uomo della cronaca quotidiana la sua miseria, invece che a disperare, lo aiuta a comprendere di quale amore è stato amato. Per un triste e prezioso privilegio, il peccatore ha bisogno dell’amore che più lontano lo insegua e più dal basso lo risollevi. Se noi lo amiamo è segno che Lui per prima ci ama. E così una fiducia quasi folle nasconde tutti i nostri dubbi, tutte le nostre inquietudini e cancella il ricordo delle nostre brutture. Scrive F. Mauriac: “Felice colui che, ritornando dopo la Comunione al suo posto, non ha bisogno di parole, ma adora e tace”.
Ma se manca chi annuncia, come crederanno? Il dolore di San Paolo per i molti che non hanno ancora conosciuto quale bellezza di vita è venuto a portare il Figlio dell’Uomo, sollecita anche le nostre parrocchie. Non basta la sola testimonianza delle nostre energie spese per la pecora rimasta nell’ovile, ma ci vogliono veri e propri evangelizzatori di strada: giovani che siano capaci di rincorrere, come Filippo, Etiopi in viaggio sulle nostre piazze. Affiancare come per andare ad Emmaus, accogliere l’adultera, farsi invitare da un Zaccheo solo curioso.
Non vogliamo portarli ai nostri gruppi stanchi, ma, al contrario, crediamo che anche un giovane con i capelli da punk possa diventare un grande santo, vivendo la sua fede nelle sue notti e sulla sua panchina. Le nostre debolezze gli riveleranno quel Gesù che solo lo salverà. Forse sono proprio le nostre parrocchie a dover essere evangelizzate, risvegliando un coraggio missionario che spesso è venuto meno. Forse avete avuto anche voi la terribile tentazione, qualche volta, di volervi avvicinare ad un gruppo di giovani che stanno sui motorini davanti alle nostre chiese, per annunciare loro che la cosa più bella che possa capitare ad un uomo è l’aver conosciuto Gesù di Nazareth e che con Lui la vita è tutta un’altra cosa.
Quanto si perdono, senza di Lui! Ma quanta paura! E poi, che cosa dire? Mi accetteranno? Chi sono io per dire loro qualcosa?
Perchè non provi prima di darti per vinto?

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