«Sia che mangiate, sia che beviate, qualunque altra cosa facciate, fate tutto per la gloria di Dio», perché «voi siete di Cristo e Cristo è di Dio» (1Cor 3, 23). È doveroso fare questa premessa, per inserire in giusta prospettiva le letture liturgiche. La vita del credente si innesta nella vita di Cristo, in modo così profondo, che Paolo arriva a dire “non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal 2, 20). Ecco perché non c’è aspetto della vita che possa essere considerato secondario, rispetto alla fede: in ognuno di essi, siamo chiamati a testimoniare la presenza viva – e vivificante – di Cristo. La seconda lettura, che la liturgia propone, tratta dalla lettera ai Galati, corre sempre il rischio di essere interpretata in modo un po’ manicheo, quasi contrapponendo la corporeità alla spiritualità, correndo il rischio di dimenticare che l’essere umano vive questa dualità inscindibile in ogni proprio aspetto della vita, dal più umile al più elevato: sarebbe riduttivo vivere in modo platonico il corpo come un “carcere”, come un fardello di cui disfarsi, perché ci impedisce di spiccare appieno il volo verso I traguardi della nostra vita. Sarebbe ingiusto, oltre che riduttivo, perché equivarrebbe a non riconoscergli i meriti che gli sono propri. Questa contrapposizione non può sussistere, all’interno della Chiesa Cattolica, a partire dal momento in cui il Verbo si è incarnato, accettando – in questa scelta – tutti I rischi, la complessità, il fascino, la bellezza di un corpo animato e di un’anima incarnata. Siamo un tutt’uno. Di più. Senza corpo, nemmeno saremmo capaci di amare, di pregare, di capire. Sono i nostri sensi che, interrogati, ci spingono a riflettere. Sono le nostre orecchie che ci dispongono all’ascolto della Parola di Dio. Sono i nostri piedi che ci conducono alla casa del Signore, così come verso la riconciliazione coi fratelli. Sono le nostre mani che, capaci di colpire, possono medicare, salvare, accarezzare. È la nostra voce che, oltre a sparlare, può anche distribuire parole di conforto, infondere fiducia, regalare speranza. La nostra anima anela a Dio; il nostro corpo non le si oppone; piuttosto, si rivela lo strumento con cui poter aderire alla volontà, quando riusciamo a sconfiggere la concupiscenza che vorrebbe allontanarcene. Noi siamo, quotidianamente, terreno di scontro, che può essere santificato: ogni giorno, con la nostra volontà, abbiamo la possibilità di scegliere cosa fare del nostro tempo. Aderire alla volontà di Dio equivale alla misura massima di libertà possibile per l’uomo, anche se potremmo essere tentati di pensare l’opposto.
Il Vangelo richiama la Prima Lettura, che ci racconta le vicissitudini di Noè. Vedendo gli uomini sempre più attratti dal Male e lontani dalla via del Bene, Dio perde la pazienza. Forse, si domanda perché abbia creato l’uomo, visto che, nonostante il Suo amore, sembra fare tutto il contrario di quello che dovrebbe, aggrovigliato in se stesso, in una malintesa ricerca della libertà, che, quasi sempre, finisce per ripercuotersi perfino contro se stesso, lasciandolo più solo, arrabbiato, incarognito, insoddisfatto, sempre in lotta con se stesso e con I propri simili. Ma Dio si guarda intorno: vede Noè e capisce che non tutto è perduto. Sembra quasi suggerirci che, anche quando il male sembra dilagare, senza lasciarci spazio di prendere l’iniziativa, c’è sempre una fiammella che, pur fumigando, ancora non si è spenta. Quasi fosse lì solo per tenere accesa la speranza. Giusto per qualche giorno ancora, quel tanto che basta a non cedere alla disperazione. Così, anche Dio ci ripensa. Non “cancella dalla faccia della terra l’uomo, che ha creato”. Opta per una scelta diversa. Una ri-creazione. Tante volte, corriamo il rischio di pensare a Dio come Creatore, nel senso che, nella notte dei tempi, muovendo un dito, ha fatto partire un meccanismo, che ancora oggi, funziona. Dio è Creatore, ma anche Padre. Questo spiega la cura quotidiana che dedica ad ogni creatura, che richiama alla vita, ogni giorno che nasce su questa terra. Ogni sera, come con un colpo di spugna, manda tutto il creato a dormire, ma lo ridesta il mattino successivo. Ci fa pensare alle vicissitudini del nostro corpo. Ogni mattino, il nostro corpo si alza, tant’è vero, che abbiamo qualche centimetro in più, rispetto alla sera. A fine giornata, la stanchezza si fa sentire. E, il mattino che segue, abbiamo bisogno di lavarci la faccia, per rigenerarci ed affrontare il tempo che Dio ci offre. Nel Vangelo, Gesù richiama alla mente di chi Lo ascolta questa storia: la storia di Noè, che è la storia di ciascuno. Di Dio che ci guarda, ci vede allontanarci, ma non si arrende. Vede ogni bruttura, ogni inciampo, ogni sbaglio, ogni incompetenza, ogni incomprensione, ogni debolezza, ogni arroganza, ogni invidia nei confronti del fratello, ogni umiliazione che infliggiamo agli altri, ogni imperfezione nel nostro desiderio d’amore. Ma non si ferma lì. Vede anche ciò che potremmo fare, dove potremo arrivare. Comprende che abbiamo bisogno di essere purificati. Del nostro, personale e personalizzato “diluvio universale”, che ci consenta di rinnovare e ritrovare il nostro rapporto con Lui, grazie al quale possiamo esprimere tutto il meglio che la nostra libertà di figli di Dio ci consente.
Rif: letture festive ambrosiane, nella IV Domenica dopo Pentecoste (Genesi 6, 1-22; Galati 5, 16 – 25; Lc 17, 26-30. 33)
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