Rinnovate od obsolete, il destinatario ultimo non cambia: la chiesa e il Papa. Il fascino della denuncia, ma anche il peso della superficialità e del cattivo gusto. Un po’ la situazione del curato di Bernanos: preoccupato per quella forma di “cristianesimo decomposto” al quale aveva condotto la volgarità della cultura, parlò in questi termini della dimensione della fede: “non si perde la fede, essa cessa piuttosto di plasmare la vita”. In tale contesto le vecchie menti invocano la tradizione. Quelle giovani l’evoluzione e la rivoluzione: forse la riforma. Non si tratta di sapere se è meglio o peggio: si tratta di capire chi comanda l’uomo. O meglio: come salvaguardare l’originale freschezza di un evento fondatore con la necessità di uno stile capace di muoversi dentro contesti storici mutevoli. Meglio: come tenere viva la dimensione ecclesiale senza pagare lo scotto di un ulteriore scisma con annesso scandalo? Perché la storia ci ha consegnato una paurosa associazione: riforma – rivoluzione.
Cinquant’anni fa, il 25 gennaio 1959, Giovanni XXIII indisse il ventunesimo Concilio della Chiesa Cattolica. Un concilio ecumenico che ha mostrato il volto di una Chiesa in pieno tirocinio e dei padri che non hanno avuto paura di “reinventare il cristianesimo” – come scrisse il teologo de Certeau -. E, in allegato, l’incredibile annuncio che le gioie che fanno sussultare il cuore dell’uomo trovano spazio e accoglienza nello spartito del Regno di Dio. In tanti animi albergava il sogno di una riforma, l’anelito di qualcosa che fosse più che un semplice maquillage, l’arditezza di costruire una chiesa diversa: non un’altra chiesa. Tra le increspature dei testi conciliari qualcuno indicò una “chiave di volta” per tornare a brillare nel cielo: non tanto perfezionare il cristianesimo, ma aspirare a perfezionarsi nel cristianesimo. D’altronde la storia della chiesa è un album impareggiabile di uomini geniali, innovatori e creativi. Ma tra loro vi fu chi firmò uno strappo per non cedere alle proprie idee e chi la riformò usando la santità e la conversione. Sono storie di riforme partite dalla “periferia”, lontano dagli intrighi del potere, tra i vicoli di paese: Francesco d’Assisi e Domenico di Guzman testimoniano la storia di un’avventura iniziata in campagna e sposata poi dalla Chiesa ufficiale. Sono forse le riforme più belle: laceranti, sudate, pregate. La chiesa che esce dall’avventura del Concilio è una chiesa in cui la richiesta di fedeltà è presentata assieme ad un margine di creatività che chiede purificazione, ascolto e pazienza per essere generato. E illuminare le tenebre.Padre Congar – insignito in punto di morte della porpora cardinalizia – parlava della chiesa come di una somma di tanti puntini. Situazione estroversa perchè richiama il fluttuare vivace dell’esistenza umana ma anche situazione esigente perchè chiede un’operazione di continua verifica e superamento, sotto la spinta di elementi “reattivi” presenti nella chiesa. Certo: la chiesa vive anche di questi elementi che vantano il carisma dell’accelerazione. Carisma che diventa diabolico quand’essi decidono di correre da soli. Staccandosi da tutto il resto. Lo ricordava l’allora cardinale Ratzinger – all’entrata del conclave che lo elesse Papa – che la “piccola barca” del pensiero di molti cristiani più volte era stata sbattuta dalle mode del momento. Ma dopo aver abdicato ai “profeti di sventura”, il Concilio ci svela la possibilità di una chiesa bella. Perchè di una chiesa in procinto di riformarsi continuamente non si può che provare simpatia.
E voglia di rimanerci firmando critiche e riforme con creativa fedeltà.