greggi

Il vuoto è sempre stata la più grande delle paure, quella che sovrasta e annerisce l’animo umano. Il vuoto, decantato nelle sue mille sfumature possibili: il cuore vuoto, vuota la sedia, la casa vuota, vuota anche la storia. Ancor di più: il Cielo vuoto. La paura-da-novanta, l’angoscia che sequestra la speranza: che Lassù, dietro il mistero indecifrabile dei cirri e dei cumulonembi, non sia rimasto nessuno a porgere l’orecchio ad un grido. Che le urla di quaggiù – tramutate sovente in litanie di bestemmie – a nessun cuore possano importare granché. Il Cielo vuoto, il Dio assente, la storia imbrogliata: la grande goduria di Lucifero, l’imbonitore. Al quale risponde oggi il Vangelo della Pasqua: «Le mie pecore ascoltano la mia voce, io le conosco ed esse mi seguono» (liturgia della IV^ domenica del tempo di Pasqua). C’è una Voce, dunque, che annulla la distanza siderale tra Cielo e Terra, che abbevera la solitudine vasta dei pensieri umani, che aggancia il Creatore alla sua creatura. C’è una Voce, quindi uno sguardo, anche una benedizione. Un interesse: I care, Dio s’interessa dell’uomo, si prende cura di Lui, veglia perchè «non andranno perdute in eterno e nessuno (più) le strapperà dalla sua mano». E’ una voce, anche un viaggio, di quelli «verso le strade storte, i tetti sfondati, il fango rappreso, le porte rotte, le stanze fredde, i sandali bucati, la vita senza parole, le croste sui ginocchi dei bambini balbuzienti» (E. Affinati, L’uomo del futuro).
Le conosce, il Cielo, quelle strade: a menadito perché sono le strade di casa, sentieri additati perchè prima già abitati, strade che son volti e percorsi dentro i quali la Voce non s’impone, ma si propone: non vi entra con scarponi da montagna, s’addentra in una conversazione già in atto, potenza discreta dal timbro soave, familiare. Una voce che è manualità, roba tipica di chi sa maneggiare le mani con cognizione di causa: «Nessuno le strapperà dalla mia mano». Mani che sanno dove mettere-le-mani: ai perché ultimi, alle radici, che spingono fin alla sorgente della propria storia: “C’è un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto” fu l’imbarazzo della donna di Samaria. S’aggiungerà, strada facendo, pure Zaccheo da Gerico, il ladrone di destra, la Maddalena di Magdala. Il cieco di Gerasa, lo zoppo del lago, il farabutto della contrada. Pecore-senza-pastore divenute, di lì a poco, pecore di un pastore del quale sanno bene riconoscere «la voce (…) e lo seguono». Non più brutte-copie di esistenze sbagliate, bensì interpreti di uno spettacolo da sogno: l’essere pecore di un Pastore dalla voce bellissima. Impossibile da confondersi con altre: trista quella pacora che al lupo si confessa.
Giù le mani, dunque, dalle pecore. Che nessuno tocchi il loro destino: alla faccia delle barzellette che girano sul loro conto, del fare-da-pecora, dell’essere pecora al modo di quaggiù. C’è un raddoppio di mani a proteggerle: quelle del Figlio – «Nessuno le strapperà dalla mia mano» – e quelle del Padre: «Nessuno può strapparle dalla mano del Padre». Tentare, dunque, se volete a strapparle senza correre il rischio di farvi piombare il Cielo addosso. In manus tua, Domine: nelle tue mani, Pastore. Mani che sanno intravedere la vita dentro gli «scarti di lavorazione. Unghie tagliate. Pezzi difettosi. Lebbrosi spirituali» (E. Affinati). Tutta una questione di mani e di voce, come in quel meriggio verso Emmaus: «Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino?» (Lc 24,32). Come nell’arrendevole constatazione di chi Gli fu avversario: «Tutto il mondo gli è andato dietro» (Gv 12,19). Il Pastore fu uomo di fuoco, di lacrime, di azione di adorazione. Di pani, di pesci, di pensieri vertiginosi. Ha usato come nessun altro quella vecchia strumentazione che fu la voce, convinto com’era che quand’anche avessimo cancellato la fame dal mondo, avremmo fatto ancora poco. L’uomo non è solo un essere da sfamare, da vestire, d’alloggiare, da difendere, da curare, d’assicurare. Ancor prima, è una creatura da illuminare, da consigliare e confortare, da incoraggiare. D’aiutare ad innalzarsi: l’uomo ha fame di parole. Di quelle che vanno dritte dove sai che ti fa male. Per aprire un varco sulla paura del vuoto.

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