Dio e la Bellezza: questo potrebbe essere il tema della Prima Lettura festiva ambrosiana. Infatti, è come se, prima che Dio si mettesse all’opera, tutta la bellezza fosse concentrata in Lui e poi, come il sole che irradia il suo calore, nel Suo atto generoso, si sia irraggiata su ogni creazione, affinché ogni cosa creata potesse rimandare alla gloria del Suo creatore. È interessante notare, del resto, come, ogni elemento, mantenga in sé, non solo l’utilità, ma anche la bellezza (parlando di alberi, ad esempio, si sottolinea che erano «graditi alla vista e buoni da mangiare»). La bellezza rimane, insomma, una caratteristica pressoché imprescindibile e – quasi – un marchio di fabbrica della Divina Creazione.
Un secondo aspetto importante da rilevare è l’alleanza tra l’uomo e Dio: senza il lavoro dell’uomo, oltre che senza la pioggia, tutto è arido. All’uomo, posto nel giardino dell’Eden, è affidato la cura verso questo posto: è a lui che spetta il compito di custodirlo e coltivarlo, affinché possa fiorire, germogliare, mostrare fiori e frutti ed essere pienamente segno dell’amore di Dio per ogni sua creatura su questa terra. La bellezza, infusa da Dio in tutta la creazione, è affidata all’uomo, affinché non sia sciupata.
Suggestivo è il modo con cui l’autore sancisce l’atto di infusione della vita: è come un soffio che, insufflato nelle narici dell’uomo, lo rende vivente, ne garantisce il contatto con l’immagine di quel Dio, che Gli ha dato la vita. Si crea un rapporto circolare di amore e di fiducia, in funzione della bellezza da conservare, affinché anche l’uomo possa vedere nel creato, che lo nutre e gli garantisce il necessario di cui vivere, il segno della predilezione divina.
La Lettera di san Paolo mette in luce la relazione tra Adamo e Cristo. In Adamo è concentrata l’intera umanità, che, ferita dal peccato, durante la ricerca di un’illusoria libertà, si ritrova a fare il proprio male, incapace di comprendere nel profondo cosa sia il proprio vero bene. È la natura umana stessa ad essere ferita dal peccato, tant’è vero, che, senza la Grazia, ci rendiamo conto che, anche noi, oggi, siamo incapaci di chiedere nella preghiera, il Bene. Più spesso, cerchiamo la nostra comodità, quello che ci consente di fare meno fatica, ciò che rispecchia il nostro sentire diffuso. Ecco perché è stato (ed è) necessario Cristo. Nel Figlio, impariamo ad essere, a nostra volta, figli del Padre, rimettendoci alla Sua volontà, secondo l’azione dello Spirito (in quanto aiuto e suggerimento a pregare nel modo più opportuno e non necessariamente il più immediato e facile). Cristo si è comportato come un nostro paladino: ha preso su di sé le nostre colpe, affinché la grazia del perdono, per tramite Suo, potesse scendere con larga generosità su tutti noi, senza limiti di tempo o di spazio. Nella lettera, troviamo un serrato confronto tra Adamo e Cristo; eppure, ciascuno di noi può rivedersi in ognuno di essi: Adamo è figura di ciascuno di noi, quando, nel tentativo di trovare la propria libertà, si allontana da Dio, ritrovandosi, però, più solo e con una vana felicità, perché non radicata in Cristo; Cristo non ci toglie le difficoltà di una sequela che, nel cammino della vita, potrà incontrare difficoltà, ma ci restituisce uno sguardo da figli, capaci di confidare nel Padre. Pare poco, ma è tutto, perché ci consente di non lasciarci andare alla disperazione, ma trovare la forza di guardare comunque avanti, anche nei periodi più bui, persino in quelli in cui ci sentiamo nella desolazione; perché se sappiamo di avere un Padre che scrive il nostro nome sul palmo della Sua mano (Is 49, 16), come possiamo pensare che possa dimenticarsi di noi, anche solo per un istante?
Il brano evangelico che la liturgia propone è tratto da un discorso che Gesù fa a Nicodemo. Quest’ultimo è un personaggio particolare, tra quelli che incontriamo nel Vangelo. È un personaggio illustre, nel gran consiglio (sinedrio) di Gerusalemme: per questo, preferisce incontrare Gesù con il favore delle tenebre. La predicazione di Cristo l’ha scosso, forse anche turbato; le sue parole infiammano il popolo. Lui, però, non è uno qualunque: è un maestro ed uno studioso. Non può permettersi di lasciarsi prendere dall’entusiasmo; vuole, però, comprendere: cos’ha di speciale questo Galileo? Forse potremo considerarlo un discepolo sui generis, forse però è stato qualcosa di più, se, successivamente, lo troviamo ancora, a prendere le difese di Gesù, quando il sinedrio inizia a voler condannare Gesù come bestemmiatore, fino a trovarlo anche sulla tomba. Nessuno conosce l’abisso del cuore umano. Forse la paura di perdere posto nel sinedrio non l’ha mai abbandonato, ma le parole di Gesù non l’hanno lasciato indifferente e si è lasciato interrogare da esse.
Le parole pronunciate possono forse essere suonate un po’ insolite (probabilmente, solo alla luce della Resurrezione, è possibile mettere in relazione l’avvento del Messia con la persona di Gesù), ma non del tutto nuove, per uno studioso come Nicodemo. Il figlio unigenito non può che far tornare alla memoria il sacrificio di Isacco, chiesto ad Abramo.
«Chiunque infatti fa il male, odia la luce, e non viene alla luce perché le sue opere non vengano riprovate» (Gv 3, 20)
Il buio è fedele alleato di ogni opera quanto meno ambigua, quando non malvagia. Il buio e l’oscurità sono cercati per evitare di poter essere visti e giudicati, magari condannati. La luce rende evidente ciò che già la coscienza rimprovera.
«Chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio» (Gv 3, 21)
È interessante notare come, accanto alla verità, si utilizzi, il verbo più pratico possibile: fare. Non, come forse ci verrebbe spontaneo pensare: dire. Non è differenza da poco, perché questa scelta suggerisce che non si tratta solo di qualcosa che ha a che fare con il pensiero o, eventualmente, con le parole pronunciate. La verità è ancora più concreta. Si compie, si realizza. Potremmo dire: si costruisce. Con la ricerca sincera, come Nicodemo; con il coraggio di andare oltre il giudizio altrui, con la fede in un Dio, che è venuto per salvare e per fare venire alla luce tutto il bene presente nel mondo: cosicché «siano rivelati i pensieri di molti cuori» (Lc 2,35).
Dio è Bellezza e creatore di bellezza: nel riscoprirci figli, tanto amati da aver ricevuto in dono il Figlio Unigenito, potrebbe rivelarsi arricchente trovare il coraggio di “scavare nel torbido” e “portare alla luce” qualche aspetto di noi di cui ci vergogniamo, di cui potremmo accettare di parlare con Gesù solo con il favore delle tenebre e non davanti ai nostri amici. Proviamo a guardarlo alla luce: magari, è proprio da lì, da qualcosa che non riusciamo ad apprezzare e non troviamo amabile che, guardato con lo sguardo di Dio, può acquisire il proprio modo di diventare amabile, per poter essere offerto anche agli altri.
Fonte: Parole nuove, don Raffaello Ciccone
Fonte immagine: Pexels