“Vai a lavorare nella vigna!” dice il padre ai due figli. “No”, risponde il primo, ma poi ci va. “Sì”, replica il secondo, ma poi non si muove.
Un perfetto quadretto di vita famigliare, specie di fronte a figli adolescenti o giovani. Difficile sentirsi dire un sì convinto, difficile che diano soddisfazione ai genitori; molto più facile avere in risposta, mugugni, grugniti, sonore sbuffate o, se parole sono espresse, qualche seccato “Non rompere”. Un must adolescenziale, che, in una società sempre più malata di “sindrome da Peter Pan”, rischia di protrarsi anche molto a lungo, quando non rispecchiarsi, purtroppo, anche a scuola, in università, persino in ambito lavorativo o tra i gruppi giovanili delle nostre parrocchie.
Ricordo che, quando ero piccola, in realtà ho ascoltato con grata meraviglia questa parabola. Inutile dire che, a partire dai 4 anni, senza mai smettere davvero “No” era sempre stata la mia parola preferita, che tiravo fuori anche nelle situazioni meno opportune. Non solo come prima risposta alle richieste di qualche favore, di un piccolo impegno, di un sacrificio, ma anche di fronte alla fatidica domanda di fronte ad un regalo (“Ti piace?”). Ero incapace di mentire e, indipendentemente dall’amore con cui lo avessi ricevuto, se l’oggetto in questione non era di mio gradimento, rispondevo, implacabile: “No!”, nell’imbarazzo generale, soprattutto dei miei genitori. Quindi, con quel mio caratterino, inevitabilmente, ero marchiata come scontrosa, arrogante, inaffidabile o poco ubbidiente. Però quando ascoltai questo vangelo, drizzai le antenne in un moto di speranza. Perché quel primo figlio diceva sempre “no”, come me (che sia caratteristica dei primogeniti?!), poi però andava, faceva, ubbidiva. Magari non era entusiasta, non dava soddisfazione, ma alla fine della giornata la richiesta era stata soddisfatta. Il suo comportamento era lodato. Perché tra il dire ed il dare, lui parla male, ma agisce bene. Fa quel che deve, nonostante l’atteggiamento inizialmente recalcitrante. Pensai che se c’era speranza per quel primo figlio, magari c’era speranza anche per me. E se c’era speranza per me, con me ce n’era e ce ne sarà per molti altri.
Magari, ecco, forse il brutto carattere un po’ sciovinista si può anche aggiustare con tempo, buona volontà e soprattutto molta pazienza, ma, per il bene di molti se non di tutti, “Dio guarda il cuore”, in cui vede l’impegno, la fatica, i tentativi di migliorarsi, insieme con i cattivi pensieri, l’orgoglio, l’egoismo che, in varia misura albergano probabilmente nel cuore di ciascuno di noi.
In quest’anno della Misericordia, è bello ricordarci che la nostra parola non è l’ultima su di noi, ma è quella di Dio ad essere l’ultima: e, tra questa e quella, c’è una vita intera in cui abbiamo opportunità di adempiere fattivamente quello che a parole non diciamo di voler fare, forse perché davvero non vogliamo eseguirlo o, magari, solo perché temiamo di non essere in grado di portare a termine il nostro compito. Per quei figli era una vigna da lavorare, per ognuno di noi può essere un compito diverso, perché ognuno di noi è chiamato a fare qualcosa in collaborazione con Dio, ma non necessariamente a tutti è richiesto lo stesso!
Cfr. Vangelo della II Domenica dopo il martirio di S. Giovanni il Precursore, anno C (Rito Ambrosiano)