Il garrito stridulo dei gabbiani, il rintocco lento della campana, il rossore imbarazzato della pietra accarezzata dalla pioggia. Piazza San Pietro è quasi deserta, sorvegliata da uomini, donne in divisa, che fra poco ne vieteranno l’ingresso. È quasi notte quando mi siedo in prossimità dell’obelisco, all’ombra dell’albero di Natale, dietro il presepe ambientato nella laguna di Grado. La piazza, per ripararmi dal freddo, condivide con me il suo abito da sera: mi rivesto del silenzio come s’indossa un piumino d’oca. I poeti muoiono ma le loro parole non moriranno mai: «Io arrivai in una piazza / colma di una cosa sovrana, / una bellissima fontana / e intorno un’allegria pazza» (C. Betocchi). Quando alzo lo sguardo, mi appaiono sulla soglia di questa chiesa, ch’è madre di tutte le chiese, i lineamenti di due tipi loschi che, ad un veloce sguardo, le fanno da corazzieri come quelli scelti apposta per farlo sul portone del Quirinale. Corazzieri, ma anche prototipi della madre, del padre che ti aspettano, ti reinvintano a rientrare a casa ogni volta che ritorni. A sinistra c’è (san) Pietro, sulla destra (san) Paolo. A guardarli senza il senno-di-poi, tanti direbbero che due galli in un pollaio sono sempre troppi: prima o poi si beccheranno.

Due storie quasi impossibili. Simon Pietro, il grande pescatore di Galilea. Il discepolo che, qualche volta, si sentiva l’impresario dello spettacolo più quotato del circondario. Con il Cristo come suo asso pregiato nella manica. Promise mari, monti, colline: di andargli sempre dietro, costasse quel che costasse. Alzò l’asticella a misure disumane: esagerò, sapendo d’esagerare. Poi, una notte, in questura lo misero al muro e lui mostrò di che pasta era fatto il suo cuore: “Non lo conosco, non so manco di chi state parlando!” Lo riconobbero dall’accento: certi incontri ti segnano per sempre. Il pescatore ubriaco di potere divenne, per grazia di Dio, il primo Papa della storia cristiana. Nella piazza, all’innamorato che ha tradito, hanno fatto una statua che lo rappresenta a imperitura memoria. Nella mano destra ha due chiavi e, nella mano sinistra, tiene un cartiglio con una scritta: «Et tibi dabo claves regni coelurum» (“A te darò le chiavi del regno dei cieli”). Dall’altra parte, l’altro corazziere: Paolo di Tarso, alias Saulo. Il Robespierre della sua epoca: ci fosse stata la giustizia odierna, all’apostolo avrebbero cucito addosso una catasta di ergastoli, da scontarsi in squallide gattabuie. O, forse, sarebbe in fila per l’esecuzione in qualche braccio della morte di penitenziari d’America. La statua lo rappresenta con la spada nella mano destra – la sua vecchia passione – e in quella sinistra un cartiglio recante un’iscrizione in caratteri ebraici: «In Dio, mia forza, tutto posso» (Fil 4,13). All’uomo che in vita sua assassinò un numero più che considerevole di umani e al pescatore dal cuore di burro la Chiesa chiede di accogliere i pellegrini che, in essa, vorranno entrare, varcando la soglia di una storia che non poggia su manufatti di calcestruzzo ma su stecchini di legno.

Li guardo, mi consolo, i loro sguardi mi accarezzano. Ripenso a tutte quelle volte che qualcuno mi chiede: “Ma come fai a sentirti a casa in questa Chiesa?” Non posso che sentirmi a casa con gente così losca, scelta appositamente per farmi da “servizio accoglienza”, per regalarmi il benvenuto. Pietro, Paolo, il sottoscritto: questa è esattamente casa mia. Dove il letto è sempre da rifare, la sedia ha una gamba rotta da anni, il pigiama è sulla sedia all’ingresso, l’asciugamano sempre per terra. Manca la carta igienica, il rubinetto perde acqua, la doccia è tutta piena di schiuma. Per non parlare della scatola di Nutella: si svuota sempre da sola. È casa mia, cosa m’importa del disordine? Resta quel luogo nel quale, anche al buio, mi sento protetto. Quel che m’interessa trovare, appena mi alzo la mattina, sono le mie solite cose. Le mie parole, pronte per essere indossate come fossero vestiti. A me, in Chiesa, basta sapere che c’è Cristo: poi, più inaffidabili mi potranno sembrare i suoi corazzieri, più esilarante ancora mi apparirà la storia cristiana. “Sogna in grande, che io andrò oltre” mi bisbiglia Dio mentre guardo quei due. Quei due che guardano me, che mi (ri)guardano.

(da Il Sussidiario, 11 dicembre 2024)

In tutte le librerie e negli store on-line il nuovo libro di Marco Pozza dal titolo “Chi ultimo arriva meglio alloggia (Rizzoli, 2024) sul commento ai vangeli domenicali dell’Anno C

«Beati gli ultimi perché saranno i primi. A sorridere della spudoratezza di Dio». È la vecchia storia della maglia nera che c’è stata al Giro d’Italia dal 1946 al 1951: a indossarla, e dunque a vincerla, era colui che si classificava ultimo. Era, chiaramente, l’esatto opposto della maglia rosa, quella indossata dal primo arrivato. Valeva tanto quanto. Uno che se ne intendeva era Luigi Malabrocca, famoso proprio per aver indossato una maglia così epica e strana. Non è mai entusiasmante, nel mondo degli uomini, arrivare ultimi. Quando, però, incontri un ultimo diventato primo, è l’attimo nel quale ti si svela l’evidenza di quell’apparente assurdità architettata dal Cristo: «Chi vuol essere il primo tra voi sarà il servo di tutti» (Mc 10,44). Il Cristo che, quando voleva deteriorare alla base le verità dei presunti santi, insospettiva con creanza e savoir-faire: «Molti dei primi saranno ultimi e gli ultimi i primi» (10,31). Detto e fatto. Detto e rifatto. Con lo stile dissacrante e profondo che ormai gli è proprio, il parroco del carcere di Padova, vicino da sempre a Papa Francesco, segue il Vangelo di Luca per andare in gita dentro le sue provocanti immagini, in un cammino mai prevedibile come quello di Gesù, per ritornarsene poi nella vita di tutti i giorni con un’evidenza più luminosa. Come se, specchiandosi nelle pagine dei Vangeli, la vita – quella che, sovente, fatichiamo a leggere nei minimi dettagli – si ripresentasse ai suoi occhi in alta definizione. È la magia di parole, quelle evangeliche, che non hanno mai finito di raccontare tutto ciò che sognano di raccontare ai loro innumerevoli lettori» (dalla quarta di copertina).

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