Il ronzio fastidioso

«È bollito». «Non ce la fa». «In finale, lo spagnolo lo prende a pallate». «La finale sarà un’umiliazione». Come un ronzio continuo, fastidioso, che ti tortura le orecchie e non smette, ti rende difficile ogni movimento, nonostante tu sappia esattamente cosa fare e – per giunta – non lo ritenga molto difficile.
Arrivare in finale, a 37 anni, dopo un recente infortunio, profumo già di miracolo sportivo. Arrivare in finale equivale già ad avere assicurato l’argento che, per lui, rappresentava comunque un miglioramento rispetto al miglior risultato ottenuto in qualunque competizione a cinque cerchi.

Una sfida impari

Fisicamente parlando, era chiaramente una sfida impari: l’età, la freschezza, il dinamismo, la tecnica, la poliedricità (2 slam su due terreni diversi nel giro di un mese e mezzo), l’efficacia agonistica di Carlitos Alcaraz – arrivato anche lui in finale con un percorso netto (sempre incontri vinti per due set, di cui addirittura l’ultimo, contro Auger-Aliassime, uno schiacciante 6-1 6-1) – parlavano chiaro, anzi, chiarissimo.

Un dettaglio, anzi altri tre


Ma non tenevano conto di un dettaglio – anzi, volendo, più d’uno – fondamentale. Lo sport – qualunque sport, in generale, ma, forse, il tennis, in particolare, non è fatto solo di muscoli. E neppure di tecnica. Testa, cuore e volontà contano altrettanto.
Negli occhi di Nole brillava la stessa ferrea volontà, diventata marchio di fabbrica tramandato nel tempo, di Vittorio Alfieri. Nel cuore, la convinzione di essere chiamato, dopo una carriera straordinaria, a restituire al proprio paese, in concretezza, tutto l’affetto con cui è stato, da sempre, sostenuto. Ma non è da sottovalutare il valore della sua testa. Ha reso omaggio ai condottieri giovani, a Wimbledon aveva reso l’onore delle armi: “non sono al loro livello”. Solo i superficiali potevano leggerlo come un messaggio di resa. Aveva solo accettato il guanto di sfida. Un ostacolo nuovo esige una strategia nuovo, un calcolo diverso, più raffinato. Forse, anche l’infortunio occorso lo ha spinto ha cambiare in parte il proprio gioco, rendendolo più concreto e realizzativo, meno “acrobatico ed elastico” di quanto ci ha abituato negli ultimi vent’anni. Forse, anche la paura ha animato il suo cuore, consapevole che la resistenza di un quasi quarantenne non può essere paragonato a quella di chi, non molti anni fa, diede battaglia, in Australia, per quasi sei ore (stabilendo un record) ad un altro spagnolo, il maiorchino Rafa Nadal, battendolo.

Un’assenza giustificata


Difendendo la scelta di Jannik Sinner (corroborata anche da una patologia non seria ma sicuramente inficiante qualunque competizione agonistica, come una tonsillite), Federica Pellegrini sottolineava come, sicuramente, nel tennis, la competizione olimpica non è così sentita come in altre discipline (che “vivono” la loro massima vetrina, ogni quattro anni, grazie a questa competizione universale, rinomata e di antichissima origine); si conti, del resto, il fatto, oggettivo, che, dagli ultimi tre anni, la partecipazione ai giochi non assegna alcun punto ATP: ciò significa che tutti i tennisti professionisti che vi partecipano lo fanno per il prestigio, per la gloria, per la loro nazione, eventualmente per le sponsorizzazioni, ma non per un “avanzamento” in carriera. Il che rende ancora più onore a chi, nonostante ciò, ha scelto di parteciparvi, magari nonostante abbia perso una finale (come accaduto all’italiano Lorenzo Musetti, approdato a Parigi per disputare la prima gara, giusto poche ore dopo aver concluso l’ATP 250 di Umag, Croazia).

Quasi un ex aequo


Considerando la conclusione di Wimbledon, in cui lo stesso Novak aveva ammesso di essere stato battuto “abbastanza nettamente” dal giovane spagnolo, tanti, giustamente, si aspettavano un simile epilogo, una partita senza storia, solo – forse! – con qualche ruggito del vecchio leone, quale rimasuglio del campione. Invece, al contrario, i due campioni hanno regalato una finale – semplicemente – epica. Se il serbo ha vinto, lo spagnolo non ha subito alcuna umiliazione. Hanno giocato quasi tre ore per finire in due set, entrambi al tie break. Hanno combattuto su ogni punto come se fosse l’ultimo, con un’evoluzione del punteggio che attesta – senz’ombra di dubbio – che il loro livello era egualmente altissimo. Un ex aequo tecnico, senza dubbi di sorta. Con un terzo posto storico (cent’anni dopo Parigi 1924, con il bronzo di De Morpurgo) anche per il carrarino Lorenzo Musetti, assicurato la sera prima, battendo il canadese Auger Aliassime, dopo un’ottima prova (nonostante la sconfitta) nella semifinale con il serbo.

I dettagli che contano


In gare così, allora, cosa fa la differenza? Qualcuno dice “la fame”. Qualcuno, la volontà. Sicuramente, la fanno i dettagli. Perché, in un doppio ex aequo, i due tie break, invece sono stati l’unico risultato netto ottenuto dall’esperto Djoković.

Significa che vincerà altri slam? Significa che non ce n’è per nessuno, ancora per molti anni e che il “cannibale” serbo avrà la meglio anche sull’età? Realisticamente, credo non lo pensi neppure lui e dimostrazione è che, già nell’ultimo anno, ha selezionato accuratamente le competizioni cui partecipare, al contrario di quanto era solito fare in precedenza.

Nello sport, oltre lo sport


Credo, però, che non si possa parlare di Djokovic in modo onesto senza spolverare alcuni termini caduti in disuso.
Non ci sono solo determinazione, libertà, fede, coerenza, forza di volontà, intelligenza strategica. Il primo elemento da affrontare è senz’altro il senso di realtà. A fronte di chi, magari anche con generosità, si butta nella mischia, incurante dell’età, iscrivendosi a più competizioni, come Nadal, il serbo pare avere maggiore senso del proprio limite e capacità di saper riconoscere il tempo che, inesorabile, passa per tutti, essendosi iscritto solo alla competizione singola.
Sacrificio, dedizione, disciplina. Per gli amanti del calcio, abituati a sportivi che sono più personaggi che atleti, queste parole suonano quasi desuete. Leggere, però, in una sua autobiografia che, nel 2012, dopo aver vinto lepica finale degli Australian Open, chiese (e ottenne) un quadratino di cioccolato – che non mangiava da un anno e emzzo – : lo lasciò sciogliere lentamente in bocca. Un episodio che può apparire banale, ma che, a mio avviso, rimane ineludibile per comprendere la sua longevità agonistica. Ci sono frotte di atleti talentuosi; ma il talento, da solo, non basta. Per mantenere alto, a lungo, il proprio livello, è inevitabile dover prestare attenzione ai dettagli. Parte integrante della preparazione mentale, quindi, sono la costanza e la determinazione nel rispettare gli orari e la durata degli allenamenti, persino quando non sono in vista competizioni, così come altri aspetti affatto secondari (quantità e qualità del cibo, non sono la quantità e qualità del sonno, ma anche la corretta distribuzione del ritmo sonno-veglia). Chiunque abbia superato i mitici trenta, lo sa. Oltrepassata questa soglia, il corpo fa “pagare gli interessi”. Il tempo di recupero aumenta e “sgarrare”, per un atleta è sempre più problematico. La scelta diventa obbligante: se vuoi competere a livelli alti, devi rispettare il tuo corpo, per chiedergli di continuare ancora il suo servizio.

Il coraggio della gratitudine

Persino il coraggio di un segno di croce, alla sua maniera (è ortodosso), in ginocchio, con un bacio al cielo, ancora incredulo per l’impresa, quale forma di ringraziamento per aver ottenuto, finalmente, dopo un inseguimento lungo vent’anni, l’ennesimo obiettivo della sua ricchissima carriera, ha creato polemiche. Senza entrare nel merito, ricordo solo una cosa: tranne per i catari, chi crede non è perfetto, ma rende lode a Dio per i talenti e i doni che ha ricevuti, non per questo però Dio si può sostituire a lui. Non l’ha fatto per l’Incarnazione, rispettando la libertà degli uomini e delle donne chiamati a collaborare con lui… a maggior ragione, vi è da credere che rispetti la libertà e la leale competizione degli atleti coinvolti.

Solo sport?

Qualcuno potrebbe obiettare: “È solo e semplicementesport”. Sì, è solo sport. Ma non è affatto semplice e può molto. Può diventare ambasciatore di pace, durante la guerra. E, anche in tempo di pace, rimane profonda scuola di vita, perché, anche senza uscire dal campo di gioco, riesce ad insegnare tanto a chiunque provi a mettersi in ascolto.

Nel frattempo, nell’abbraccio della sua famiglia, deposta la racchetta, per ora Novak si gode il meritato riposo.


Fonte immagini: account instagram dei giocatori e dall’account instagran novakdjokovicl0

2 risposte

  1. Anche se ortodosso, credo sia pur sempre un cristiano e lo ha dimostrato facendo vedere a fine partita il crocifisso che porta al collo , quasi volesse contrastare la blasfemia del Cenacolo con le trans gender.

    1. Sì, l’ho specificato proprio perché ho letto che alcuni erano stupiti e, anzi, lo critivano come un “farlo sbagliato”, invece è solo un segno di croce ortodosso, anziché cattolico.

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