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«Nell’arca non c’era nulla se non le due tavole di pietra, che vi aveva deposto Mosè sull’Oreb, dove il Signore aveva concluso l’alleanza con gli Israeliti quando uscirono dalla terra d’Egitto» (1Re 8, 9) ci dice la prima lettura, facendoci riflettere su cosa sia prezioso.
Non c’era nulla nell’arca, dice. Nulla, se non il tesoro più prezioso. Cosa pensare infatti, di più prezioso, per gli Israeliti, delle tavole “scritte col dito di Dio” (Es 31, 18 )?
In quelle due tavole, non c’è solo un contenuto (le leggi): c’è l’alleanza stessa, con il suo ricordo. C’è l’arroganza del faraone, il dolore del giogo della schiavitù, la sabbia dell’Egitto, la stanchezza di un viaggio estenuante, la povertà della fede messa alla prova, la fragilità umana, l’infedeltà dell’uomo e la fedeltà. È tutto racchiuso lì: in quelle due tavole, contenute nell’Arca dell’Alleanza.
La storia di Dio che si fa incontro all’uomo, anche quando questi lo scansa, se ne allontana, cerca di scantonare. Dio lo insegue per il suo bene, anche se l’uomo se ne allontana nel malinteso di un proprio bene, che, però, gli si ritorce contro, lasciandolo vagare, inquieto ed insoddisfatto. Perché più importante di dove andare, la vera domanda è sempre, più ancora che perché, per chi?
Perde senso la traversata nel deserto, i quarant’anni a vagare, l’aspirazione alla terra promessa “dove scorrono latte e miele” (Es 3, 8), se si dimentica l’Alleanza con Dio. Perde senso Israele stesso, se perde di vista l’alleanza con Dio, che dà senso a tutto il resto.

Lo stesso può essere detto per noi. Che cosa troviamo nel tabernacolo? Nulla, se non il Corpo di Cristo, che ci ha lasciato come sostegno, in attesa della Comunione totale con Lui.
E, anche per noi come per il popolo d’Israele, quant’è prezioso quello che segue il “se non”!
Si può dire che proprio in ciò risieda la vera ricchezza ed il vero tesoro della Chiesa, dal momento che l’Eucaristia, consacrata durante la celebrazione, è fulcro centrale di quella liturgia che la Sacrosanctum concilium  definisce fonte e culmine della vita cristiana (n. 10): «il culmine verso cui tende l’azione della Chiesa e, al tempo stesso, la fonte da cui promana tutta la sua energia». Da ciò consegue, dunque che «il lavoro apostolico […] è ordinato a che tutti, diventati figli di Dio mediante la fede e il battesimo, si riuniscano in assemblea, lodino Dio nella Chiesa, prendano parte al sacrificio e alla mensa del Signore».
Ecco, quindi che, nell’Eucaristia, l’alleanza dell’Antico Testamento è rinnovata e, rinsaldata grazie al sacramento della Riconciliazione, ci consente di poter essere, giorno dopo giorno, nuovamente in grado di guardare Dio occhi negli occhi, come all’inizio della creazione del mondo, come all’inizio del nostro inizio, quando, come di fronte ad un capolavoro, guardandoci, Dio ha detto «è cosa molto buona» (Gen 1, 31).

Nella seconda lettera ai Corinzi, Paolo invita ad una comunione con Dio che sia coerente (cercando, cioè, di far corrispondere alla fede professata le opere, senza seguire idoli). Non si tratta, evidentemente, di ripudiare la propria umanità né – tanto meno – ritenersi una élite privilegiata sulla base della fede in Cristo. È – piuttosto – la riscoperta di una paternità di Dio, già annunciata nell’Antico Testamento («io sono un padre per Israele, Efraim è il mio primogenito» – Ger 31, 9), che lo illustra come protettore e liberatore del suo popolo («Dirò al settentrione: “Restituisci” e al mezzogiorno: “Non trattenere”; fa’ tornare i miei figli da lontano e le mie figlie dall’estremità della terra» – Is 43, 6)
Dio, che ci crea, ci conserva anche, si prende cura di noi, ci benedice, ogni giorno. Poiché, infatti, in Dio, non ha senso parlare di tempo, perché c’è da sempre, così anche la creazione che da lui promana non riguarda l’inizio del mondo, ma ogni nuovo inizio e ogni nuovo alito di vita immesso nelle sue creature. Ogni giorno è un giorno fatto dal Signore e, dal buio di ogni notte, ogni giorno siamo richiamati alla vita, quando la luce dell’alba ci invita a metterci all’opera, insieme con il sole che spunta all’orizzonte. Per cui, ogni giorno è una ri-creazione ed un ritorno alla vita, offertaci secondo la nuova possibilità che il giorno nascente ci offre. Ogni giorno abbiamo il nostro malloppo di tempo da investire: 24 se espresso in ore, 1440 se in minuti, 86400 se in secondi.

Anche il Vangelo (Mt 21, 12-16), che riporta l’episodio dei venditori scacciati dal tempio, ci riporta all’argomento della Prima Lettura, secondo, però, lo sguardo neotestamentario che meglio chiarisce la relazione tra l’uomo e il tempio. L’edificio è da rispettare non perché le pietre richiedano una particolare devozione. Lo è, piuttosto, per la sua particolare destinazione d’uso, che, come le tavole della Legge e come l’Eucaristia, richiama l’Alleanza di Dio con l’uomo. Il tempio non è, quindi, la casa di Dio, ma luogo d’incontro tra Dio e l’uomo. È in funzione di questo che le pietre che assumono un significato più preciso e più profondo. Come è in funzione di questo che non è possibile rapportarci con questo edificio come con tutti gli altri. Perché quell’edificio è figura dell’uomo.

«Noi siamo il tempio del Dio vivente» (2Cor 6, 16): siamo noi il tabernacolo, la tenda del Dio-con noi. Ecco perché ci chiede di fargli posto, come, del resto, chiede san Paolo ai Corinzi poco oltre (2Cor 7, 2): non, però, un posto stretto, angusto, ricavato a stento tra mille. Ma un posto che sia centro della nostra vita. Ricavato quello, ogni altro aspetto della nostra vita troverà, con armonia, il proprio: perché Dio «non toglie nulla e dona tutto!» (Benedetto XVI, 24 aprile 2005, omelia nella S. Messa per l’inizio del ministero petrino)


Rif. letture festive ambrosiane, nella X Domenica dopo Pentecoste, anno B

Fonte immagine: Pixabay

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