bambinaPreludio. Quella brava donna che fu la nonna
La nonna tiene per mano la piccola Martina di quattro anni, mentre la accompagna alla scuola materna; la piccola è sempre entusiasta di essere accompagnata dalla nonna e rinuncia perfino ad andare a scuola in auto con la mamma; chissà, quel tratto di strada con una nonna tutta per lei è un buon viatico per la giornata di scuola materna. Fatto è che nonna e nipotina hanno un loro rituale, cui ambedue tengono tantissimo: prima una preghierina al Signore e poi una storia, giusto giusto fino alla porta della scuola (i genitori di Martina conoscono bene e approvano queste sane abitudini). Ma quella mattina di primavera, già adornata dal primo pallido sole, nonna attacca come al solito: “Ciao Signore! Buon giorno! Tu ci guardi sempre”. Ma Martina è muta, non fa eco alle parole della nonna; anzi, di lì a un secondo dichiara con la sua vocetta squillante: “Me, non voglio che mi guarda!” Cosa farà ora la nonna? Che cosa risponderà alla piccola apprendista atea.

1) “Martina, il Signore ti guarda sempre, anche se tu non vuoi!” La nonna, per apparire un po’ più soft, potrebbe pure aggiungere: “Ti guarda con amore, non smette mai di guardarci”. La nonna prenderebbe un bellissimo voto ad un esame di teologia. Eppure la bambina leggerebbe questa risposta come un “rassegnati!”. E’ davvero la risposta giusta per una bambina di quattro anni che si affaccia per la prima volta ad incrociare lo sguardo di Dio? Siamo convinti che la bambina non reclamerà alla nonna, ma le rimarrà nel suo cuore la sensazione d’essere impotente di fronte a Dio, di non poterci fare nulla contro di Lui. Teologicamente è vero, ma Dio non difenderebbe così Se stesso di fronte a Martina: è vero che nulla sfugge al suo sguardo eppure Lui è il primo ad essere disposto a ritirare se stesso per far spazio a quel piccolissimo tu che è lei. Domani mattina, passato il capriccio, Martina potrebbe tornare a dire: “Voglio che mi guardi”. Farebbe fatica se la nonna avesse annunciato un Dio che se ne sta solo nella sua onnipotenza.
2) “Ma cosa dici? Hai qualcosa da nascondere? Chiedigili subito perdono”. Per poi sfociare in toni minacciosi, quasi Dio avesse bisogno di un avvocato quaggiù per difendersi: “Se non preghi Dio non ti aiuta”. Oppure la nonna potrebbe non raccontargli più la storia come castigo. E’ una risposta quella della nonna che nasce da una preoccupazione morale: l’unico rapporto con Dio è quello del conteggio delle colpe. Un Dio ragioniere al quale interessa solamente far quadrare i conti: vedere se hai ragione o torto, se sei colpevole o innocente, se meriti oppure no il suo aiuto. Ad un Dio così bisogna sempre chiedere scusa anche quando non si è convinti di che cosa chiedere scusa: non si sa mai se poi Dio si arrabbia! Il Dio della nonna è un Dio di fronte al quale stare col grembiulino bianco senza macchia. Ma è anche un Dio impotente: se ho il grembiulino bianco tu mi sei debitore. E’ la preghiera del fariseo.
3) La nonna, invece, è stata una catechista spettacolare. Sentite la sua risposta: “secondo me, là dietro le nuvole, Dio si sta girando un attimo dall’altra parte per non guardarti!” e ride divertita per questa piccolissima bambina che osa decidere – alla veneranda età di quattro anni – se essere guardata o meno da Dio. Martina ribatte alla nonna: “Dopo mi guarda ancora, però, vero? E’ un Dio bellissimo quello annunciato dalla nonna: un Dio colmo di rispetto per i suoi figli che guarda con amore ma che non pretende che essi si arrendano subito a questo amore e lo capiscano subito. Così onnipotente da essere impotente per amore: sta alla porta e bussa

Martina è stata molto fortunata, poiché il Dio che abita nel cuore della nonna è un Dio simpatico e giocherellone, un Dio che lei può immaginare mentre ride e gioca, danza e si nasconde, si mostra e si vela.

Avverrà infatti come a un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno; poi partì. Subito colui che aveva ricevuto cinque talenti andò a impiegarli, e ne guadagnò altri cinque. Così anche quello che ne aveva ricevuti due, ne guadagnò altri due. Colui invece che aveva ricevuto un solo talento, andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone. Dopo molto tempo il padrone di quei servi tornò e volle regolare i conti con loro. Si presentò colui che aveva ricevuto cinque talenti e ne portò altri cinque, dicendo: «Signore, mi hai consegnato cinque talenti; ecco, ne ho guadagnati altri cinque». «Bene, servo buono e fedele – gli disse il suo padrone -, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone». Si presentò poi colui che aveva ricevuto due talenti e disse: «Signore, mi hai consegnato due talenti; ecco, ne ho guadagnati altri due». «Bene, servo buono e fedele – gli disse il suo padrone -, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone». Si presentò infine anche colui che aveva ricevuto un solo talento e disse: «Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso. Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra: ecco ciò che è tuo». Il padrone gli rispose: «Servo malvagio e pigro, tu sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso; avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l’interesse. Toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti. Perché a chiunque ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha, verrà tolto anche quello che ha. E il servo inutile gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti». (Dal Vangelo di Matteo, 25, 14-30)

girasoli
Primo flash. Un padrone
signore che parte

Sembra quasi che non voglia svelare il suo volto quest’Uomo. Sempre a parlare di Sè in terza persona, mescolando volentieri il maschile col femminile. E così di volta in volta, in un carnevale di maschere che tutto sono eccetto che una carnevalata, s’affaccia sul palcoscenico della storia nella vesti di una massaia o di un contadino, di un cercatore di perle o di un seminatore, di un pastore o di un mendicante. Il Vangelo pullula di falsi profili – che non sono che l’altro volto della sua seduzione – che Lui s’addossa per spingere l’uomo a cogliere la profondità della sua beltà. L’altra volta indossava le vesti di un seminatore, stavolta si apre il sipario e appare con le sembianze di un padrone, con il vestiario che ben s’addice a chi sta partendo: un zaino o forse una bisaccia, o anche solo un bastone, pronto a fidarsi del Padre che nutre i gigli del campo e gli uccelli del cielo senza che glielo chiedano. Li nutre per amore.
Il padrone ha dei servi: li chiama e affida loro i suoi tesori. Non sia mai che il Regno del Padre suo abbia ad arrestarsi: se non c’è Lui, c’è l’uomo col quale – dal primo Natale della storia – ha deciso di mettersi in cooperativa. Non tutti i servi sono uguali e lui lo sa: nel Vangelo essere padrone significa avere fiuto per i campioni. E Lui, garzone-apprendista di una bottega di Nazareth, di fiuto la storia gliene addebiterà a dismisura. Come ogni buon allenatore capace di parlare al cuore dei suoi atleti, li guarda, li riconosce – al pari del vasaio con le sue opere d’arte – e poi distribuisce i talenti secondo le loro capacità. Lui parte (e poco importa se a noi il senso di quel viaggio rimane oscuro) ma i servi rimangono nel paesetto natìo e adesso hanno pure un’idea di quello che dovranno fare. Ma sopratutto sanno tutti e tre che se il padrone ha affidato loro qualcosa è perchè si fida delle loro capacità, nutre stima nei loro confronti e s’arrischia nell’affidare loro ciò che di più caro custodisce nel forziere. Ecco perchè mentre il padrone sarà assente loro dovranno darsi da fare con i suoi beni, come se fossero i loro beni: perchè il talento non appartiene loro, sono soldi del padrone e vengono loro affidati perchè li facciano fruttare. Il Vangelo è certo, tutti e tre hanno ricevuto dei talenti: il primo servo, il secondo, il terzo. Eppoi io, tu, lui, tutti quanti: chi di più chi di meno. Perchè per Gesù non è importante la quantità ma l’uso che se ne fa: il padrone prima o poi torna, e torna per chiedere che fine hanno fatto i suoi talenti. Perchè, anche se prestati, rimangono suoi e ai servi è concessa la gestione di essi.

Però, a ben pensarci, questo basta e avanza. Perchè significa che Dio si fida di me, si fida di te: e in un mondo in cui non ci si fida più di nessuno, ecco perchè stavolta la Novella è Buona: c’è un Dio che si fida di te. Ecco spiegato perchè non te ne deve importare più di tanto se al tuo parroco, al tuo vescovo, al tuo superiore stai simpatico o meno. Di fronte all’Eterno chi sono costoro? Al contrario, c’è da torturarsi dalla gioia nel pensare che agli occhi di Dio tu sei importante, unico, eccezionale, addirittura insostituibile. Perché se ti chiama vuol dire che ti ama, che tu gli stai a cuore. A te non aveva mai pensato nessuno? Lui si! Puoi dire a tutti: si è ricordato di me. E davanti ai microfoni della storia (anche se a te sembra nel segreto del cuore) ti affida un compito – che è un talento – su misura. Più che una missione, sembra una scommessa, una scommessa sulla tua povertà. Apri la finestra e guarda: ha scritto “Ti amo” sulla roccia di casa tua. Sulla roccia, non sulla sabbia come nelle vecchie canzoni d’amore. E accanto ci ha messo il tuo nome: “Ti amo, Marco!” Forse l’ha segnato di notte, o forse era all’approssimarsi del giorno, o meglio al tramonto quando il cuore batte a dismisura. Ma cosa importa poi? Quello che conta è che potrai dire a tutti: non si è vergognato di me, anzi si è fidato!
E allora sfrutta ciò che Dio ti ha consegnato. A Lui non dovrai rendere conto dei rischi occorsi ma della felicità raggiunta: questo è l’insegnamento. Per prepararsi al giudizio non basta conservare, occorre saper fruttare perchè sarai giudicato in base alla tua intraprendenza che altro non è che il rischio dell’amore. Ecco perchè il volto di quel Padrone non ti deve paralizzare e nemmeno incutere terrore. E’ un Volto che spinge a vette inimmaginabili perchè per Lui l’uomo non è un semplice custode dei suoi beni: a lui è stato dato il compito di trafficarli per farli fruttare. Nella vita vuoi saltare e non sei alto? Gioca sul fatto che sei basso e agile ad arrampicarti. Non hai un bel naso? Giocati il fatto di avere una bella bocca. Non hai una bella bocca? Punta tutto sulle tue mani. Sei proprio brutto da spaventare anche le galline? Spendi la capacità di essere leale. I tuoi genitori sono un po’ orsi? Però sono generosi. Non lasciarti ingannare dagli altri, guarda che sono furbi gli uomini: così furbi che hanno scambiato il talento per una pacchia. Come se bastasse nascere col talento e la vita sarà sistemata per sempre: “quello ha talento; guarda che talento; per forza: con quel talento che possiede; questo è un talento nato”. Sappi che loro lo fanno per salvaguardarsi dal doversi impegnare. Perchè tu lo sai: il talento senza l’applicazione è nulla.
Hai ragione ad arrabbiarti, allora. Perchè te l’hanno sempre detto – sopratutto noi preti – che perseverare è diabolico. Invece stasera scoprirai che perseverare è il verbo più evangelico che ci sia. Perchè il talento senza la perseveranza diventa un talento bruciato. Un grandissimo errore! Provaci: tanti per non provare, per non tentare, decidono che le cose sono impossibili. Bel modo di ragionare! Altri, per non faticare, abbassano le vette. E così finiscono per vivere nella palude: molli come budini, segatura invece che sangue nelle vene, grinta da pesce bollito. I cimiteri sono pieni zeppi di gente morta nuova di zecca. Ne è valsa la pena?
A scuola la maestra mi insegnò una storiella. In un paese c’erano tre fratelli: Jacopo Colombo, Gregorio Colombo e Cristoforo Colombo. Un giorno Jacopo disse: “Chissà se c’è qualcosa di là” e passò la vita a pensare a cosa ci poteva essere oltre il mare. Gregorio, invece, si spinse oltre: “Forse c’è qualcosa, ma è troppo pericoloso andarci”. Cristoforo li sorpassò: “Cosa ci sia non lo so? andiamo a vedere!”. Quel giorno iniziò a scoprire l’America.

Poi cala il silenzio sull’uscio di quella casa: forse un saluto col bacio sulla guancia, di sicuro un arrivederci perchè ogni viaggio è sempre una promessa di ritorno, sin dai tempi di Ulisse L’Esploratore. Lo vedono allontanarsi, si gettano l’un l’altro forse un’occhiata e guardano i talenti luccicare nelle loro mani. E’ l’ultimo istante in cui li cogliamo assieme, magari sulla soglia di quella vecchia casa padronale. Poi ognuno va per la sua strada. Quello che si trovò in mano cinque talenti li andò a negoziare con accortezza e dopo qualche tempo gli fecero sapere che erano raddoppiati. L’altro se ne trovò due e non si rammaricò: si mise in testa di rischiarli e poco dopo ricevette la notifica dell’avvenuta moltiplicazione. Il terzo, forse colto da un pizzico di paura – di non saperci fare, dei ladri, di mille cose chimeriche o forse anche solo dall’infingardia – non ci pensò due volte: grattò con le mani la terra, vi produsse una grande buca e vi nascose il denaro del suo padrone. Forte del vecchio monito che si tramanda in paese: meglio l’uovo oggi che la gallina domani. Servi, non schiavi: perciò liberi di fronte al padrone.

Secondo flash. L’ardire di rischiare per Lui
Il padrone parte per poi tornare, come i vecchi generali della storia: si và, si conquista la terra e si torna a casa. Appena tornato, chiamò subito i suoi servi perchè rendessero conto del denaro avuto in deposito. Denaro che era tantissimo per tutti (per avere un ordine di grandezza, un talento corrisponde a vent’anni di lavoro di un operaio, quindi fra centocinquanta e duecentomila euro! Al primo servo viene consegnata la strabiliante cifra di 1,2 milioni di euro, da farci un bell’investimento). Per il padrone – fine intenditore di bellezze e oggi scopriamo pure navigato imprenditore – la sorpresa ha il volto della gioia: compaiono i primi due servi – sorridenti, in febbrile attesa e con un pizzico magari di orgoglio per la loro imprenditoria – e scoprono le carte: la somma è stata raddoppiata. Anche il secondo se l’è giocata bene, nonostante potesse avvalersi di un diverso trattamento. E il padrone ha il volto di un signore: ringrazia ambedue con le medesime parole e assegna loro il medesimo premio: entrare e condividere la gioia del padrone. Pensa un po’: c’è qualcosa che procuri più gaiezza nel cuore di condividere i battiti di un cuore vestito a festa? Nel ventre dei Vangeli no: in quelle pagine d’inchiostro e di vento il sogno di Dio è che nessuna casa sia senza la festa del cuore. “Entrate: non vi chiamo più servi ma amici. Perchè avete raddoppiato la mia fiducia in voi!”. Felici quei due servi: non tanto per loro, forse, ma perchè rischiando hanno pensato di fare la felicità del loro padrone. Nella consapevolezza che lui li aveva onorati della sua fiducia, essi vollero procurargli gioia con il loro impegno, una gioia che numeri e valori non potevano esprimere a dovere. Quant’è strabiliante nella sua bellezza quest’immagine di Dio: non è un padrone che rivuole indietro i suoi talenti, con magari in aggiunta quelli che i servi hanno guadagnato. Ciò che hanno investito e portato a casa grazie alla loro intraprendenza non solo rimane a loro ma è addirittura moltiplicato un’altra volta: “sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto”. Figurati se quel padrone ha bisogno di quei talenti, siano essi dieci oppure due. Guardali nel volto: i servi vanno per restituire e Dio rilancia perchè l’uomo non vive per restituire a Dio ciò che ha ricevuto, vive per far fruttare per sé e per gli altri i doni ricevuti. Prova a leggere con calma queste righe d’altissima imprenditoria: non c’è traccia di tirannia, non c’è profumo di capitalismo alcuno. Chi consegna dieci talenti non è più bravo di chi ne consegna quattro: le bilance di Dio non guardano alla quantità, valorizzano la qualità.

Terzo flash. La paura di un Dio sbagliato
macapelliE poi c’è lui, giusto in fondo alla fila dei servi. Lui, il terzo della parabola, che a differenza degli altri due si presenta con il volto incupito e terrorizzato. Forse un po’ brutto, malaticcio, pauroso, complessato. Stanco, sembra quasi di vederlo dietro al cespuglio, inginocchiato con le mani che grattano nervose la terra. A lui il padrone non aveva chiesto di scavare o scavarsi una buca ma di giocare quel talento sulla terra. Eppure sembra che sia ancora lì che scava, timoroso di fissare lo sguardo su di Lui. I primi due servitori sono sembrati l’immagine dell’operosità e dell’intraprendenza: hanno trafficato ciò che è stato loro affidato e consegnato il doppio di quanto avevano ricevuto: servi buoni e fedeli. Lui, invece, è pigro e passivo: non traffica, non corre rischi ma si limita a conservare: servo cattivo e infedele. E pensare che era lo stesso padrone quello che tutti e tre avevano salutato sul limitare del giardino. Stesso Volto ma, col senno di poi, un’immagine diversa di quel Volto. Il terzo servo ha un’immagine misera del padrone: un uomo duro, che miete dove non ha seminato, che raccoglie dove non ha sparso. Ovvio che di fronte ad un Dio così c’è posto solo per la paura, lo scrupolo e l’osservanza di ciò che è prescritto: nulla di più. “Meglio non correre rischi!” – si sarà detto tra sé al momento dell’investitura a custode del talento. Scavare la buca e tenere la risposta a portata di mano: “ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo denaro: ti rendo quanto mi hai dato”. Forse si pensa davvero un uomo dabbene quel servo, così giusto da contrapporre il suo punto di vista a quello del padrone, come se egli avesse il diritto di criticare l’agire del padrone, come se la sua condotta improduttiva fosse del tutto giustificabile. Agli altri due è bastato ricevere la fiducia del padrone per accendere in loro capacità magari inimmaginabili.
Già il fatto che al primo servo siano stati affidati cinque talenti era accaduto tenendo conto delle proprie capacità, nella certezza che egli non avrebbe deluso: è come essere racchiusi in una predestinazione positiva. Questa persona è stata creata per servire il suo signore, per divenire un contenitore della sua grazia. Ed egli ha reso giustizia alla fiducia che Dio ha posto su di lui. Il secondo, il cui recipiente è più piccolo, è stato riempito a sua volta fino all’orlo, partecipa alla stessa gioia del suo signore, ma non riceve il talento in eccesso: il signore non divide neppure il talento fra i due, ma lo dà a colui che ha già di più. A colui che non porta nulla viene tolto tutto, invece. Egli viene maledetto, gettato in un luogo dove sarà trattato duramente. Eppure, se ci pensi bene, non ha rubato, non è scappato via con quell’unico talento, non lo ha sperperato: lo ha semplicemente restituito al suo signore con in allegato delle parole aspre. Non ha avuto fiducia nel suo signore e non ha lavorato: lo esprimono le sue parole e per questo viene punito. Perchè se a ciascuno viene dato secondo le proprie possibilità, anche lui avrebbe potuto guadagnare un talento, avrebbe almeno potuto assicurarsi gli interessi; e se anche non fosse stata una prestazione eccellente, il signore si sarebbe potuto considerare soddisfatto. Avrebbe espresso la volontà almeno di fare qualcosa di piccolo o di piccolissimo per il signore, fosse anche solo la volontà di mettersi a disposizione. E questo suo mettersi a disposizione gli avrebbe permesso di prendere parte alla gioia del suo padrone. A suo modo sarebbe stato premiato come gli altri due. Ma il suo tentativo di fare i conti con il signore in un atteggiamento di pura franchezza non può essere accettato da questi.
Forse immaginava quel Padrone come un avaro, desideroso di mangiare sugli interessi: figurarsi se Dio ha bisogno di riscuotere l’accredito sui talenti che dona. Alla creatura il Creatore non chiede la riscossione dei tributi: sono loro che s’avvicinano al Padrone per ridarli ma Lui rilancia l’avventura: moltiplicata per n che tende all’Amore. Dispiace la triste avventura dell’esistenza di quel servo impaurito dall’immagine di un Dio sbagliato: magari un giorno la sua catechista dovrà assumersi le sue responsabilità, nel frattempo Lui ha trascorso una vita a fare i conti con la paura, il timore di non essere all’altezza, la frustrazione di chi si vede ricco di un solo talento.
Tre servi e due modi diversi di giocarsi la vita: c’è chi nei talenti scopre l’occasione di firmare la sua esistenza da protagonista e chi vive la vita come fosse un lugubre e funereo tribunale popolato di rischi e di paure con seduto in mezzo un Dio barbuto e accigliato, col dito puntato e la faccia scontrosa. Eppure nella casa di Dio – racconta un passaggio del libro dei Proverbi, c’è lana e lino, c’è una donna che lavora con le mani per stendere la conocchia e con le dita tiene il fuso. Quando vede un misero spalanca le sue palme e ai poveri allunga la mano: una donna da lodare alle porte della città. Impossibile essere timorosi nell’affacciarsi alla soglia di una simile abitazione: ha paura solo chi ha fatto esperienza di un Dio facile, ch’è sempre a rischio d’essere pure un Dio sbagliato, di quelli costruiti su misura per gente di piccole dimensioni. Verrebbe d’avvicinarsi a quel servo e chiedergli come si fa ad avere un tesoro nelle mani e sotterrarlo: davvero la paura gioca questi brutti scherzi, blocca il coraggio fino a rendere inerti e rinunciatari?

Fregato dalla paura: “non ho la stoffa, questo non mi interessa perchè è troppo complicato, da piccolo non l’ho mai fatto, tanto non cambierà niente, non ce la farò mai, devo assolutamente cercare di piacere”. Eppoi la paura delle paure: “se poi sbaglio, cosa diranno? Mi prenderanno in giro, sarò un fallito, non mi rialzerò più”. Questa è gente che rinuncia a lottare in partenza, gente che per la paura di sbagliare vive con una tale cautela che muoiono quasi nuovi di zecca. Pensare che tutte le grandi scoperte sono arrivate dopo anni di fallimenti, situazioni che si sono risolte non al quinto, ma dopo centinaia di tentativi andati a vuoto. Paul Erlich scoprì la cura contro la sifilide dopo aver fallito precedentemente seicentosei volte. Si racconta che Thomas Edison (il più prolifico inventore di tutti i tempi: mise la sua firma su oltre milleduecento scoperte) nonché inventore della lampadina, abbia effettuato oltre cinquemila esperimenti negativi prima di mettere a punto una lampadina funzionante. Leonardo da Vinci ed Albert Einstein furono considerati dei buoni a nulla dai loro maestri. Quando il primo concerto di Brahms fu accolto male, il compositore scrisse alla sua donna amata: “penso onestamente che sia la cosa migliore che poteva capitarmi. Mi costringe a darmi da fare e rafforzare il mio coraggio”. Il padre di Pascal gli nascose i libri di matematica e lui non si diede per vinto: un giorno arrivò ad inventare la calcolatrice. Il padre di Francesco Petrarca gli bruciò i libri di latino e lui divenne quel gran genio che fece conoscere al mondo la bellezza di Laura. Il padre di Strauss non voleva che il figlio studiasse musica per nessun motivo al mondo: invece lui è diventato uno dei più sublimi compositori della storia. Il signor Buonarrotti voleva che suo figlio Michelangelo diventasse un facoltoso commerciante: lui ha insistito con il martello e lo scalpello e oggi la gente piange di fronte alla Pietà. Solo questione di talento? No, signori: gente che in tasca c’aveva solo un talento ma che ha deciso di giocarlo per farlo fruttare, anche a costo di perderlo.
Un assistente sociale invitava tutti quelli che si lamentavano dei propri fallimenti a leggere un poster che teneva appeso nel suo ufficio:

“Fallito in commercio nel 1832 e nel 1833.
Sconfitto per la Camera dei deputati nel 1832.
Eletto all’assemblea nel 1834.
Morta la fidanzata nel 1835.
Esaurimento nervoso nel 1836.
Sconfitto come Presidente della Camera dei deputati nel 1838.
Sconfitto come membro dell’assemblea elettorale nel 1840.
Sconfitto per il Congresso nel 1843, nel 1846 e poi ancora nel 1848.
Sconfitto per il Senato nel 1855.
Sconfitto come vicepresidente nel 1856.
Sconfitto per il Senato nel 1858.
Eletto Presidente degli Stati Uniti d’America nel 1860.” (A. Lincoln)

Come vedi non esistono condizioni meteo sfavorevoli: esistono uomini e donne che si arrendono. Che hanno paura della vita. Che hanno paura di Dio.

Troppe anime sono bloccate per la paura di Dio: la sindrome del terzo servo è sempre in agguato alle porte delle chiese, laddove da secoli e generazioni si è avvezzi a governare più con la paura che con la gioia. Pensare, invece, che Dio – e la parabola dei talenti ne è il manifesto più avvincente – ha nascosto nei Vangeli e nella creazione un margine di creatività smisurato, la possibilità d’essere obbedienti ma non servili, di scarabocchiare pure noi un pezzo di Storia Sacra prendendo in mano il coraggio. Una storia tutta strana perché storia di Dio: quella che siamo costretti a studiare a scuola la scrivono i vincitori, quella che registra i battiti di Dio verrà scritta dai perdenti. Quelli che hanno capito che chi ha dieci talenti non è più bravo di chi ne ha uno: ciò che conta è la qualità agli occhi di Lui. Peccato davvero che la paura abbia paralizzato il servo del talento: eppure aveva un patrimonio tra le mani.
Lo scrisse Charlie Chaplin: “ti criticheranno sempre, parleranno male di te e sarà difficile che incontri qualcuno al quale tu possa andare bene come sei. Quindi: vivi come credi, fai quello che ti dice il cuore. La vita é un’opera di teatro che non ha prove iniziali. Canta, ridi, balla, ama e vivi intensamente ogni momento della tua vita, prima che cali il sipario e l’opera finisca senza applausi.” Senza applausi e seduto ai bordi di una buca scavata nel terreno.
Con affissa una lapide: “qui giace un talento nato morto”.

paura

Conclusione. “Vi prego: non esagerate!”
Però, vi prego: non esagerate con il terzo servo stasera. Lo so che verrebbe voglia di tirargli il collo, di gridargli quanto fifone sei!, di esporlo al pubblico ludibrio. E magari pure di rinfacciargli che s’è mangiato l’occasione della vita. Il problema è che non tutte le nonne sono come quelle di Martina (e come la mia). Chissà quale figura di Dio gli avranno raccontato le sue catechiste in quelle ore di catechismo più o meno ortodosso sopportato all’ombra del campanile. Le immagino (nel frattempo spero che qualcuna abbia un po’ smarrito l’acidità del tempo): gli avranno raccontato della barba e dei baffi, delle rughe e delle minacce, della sua forza e onnipotenza oltrechè dei suoi occhi che ti squadrano, delle sue mani gigantesche, della sua curiosità fin sotto il piumino. Povero Gesù, abbi pietà di noi. E scusaci perchè dietro quella paura del terzo servo ci stiamo anche noi, tua chiesa: che governa più con la paura che con la gioia, che parla di Te come di un cimelio da mausoleo piuttosto che con i colori freschi della primavera, che ti ha incastrato nei catechismi, nei vestiti e nei capitelli mentre tu sei nato per stare sulla strada. Scusaci davvero: stavolta abbiamo mandato avanti lui – come Davide quella volta mise in capo all’esercito Uria per rubargli la moglie – perchè temevamo noi la brutta figura. Io stasera mi sento in colpa perchè mi sembrava di essere davanti alla televisione a guardare L’eredità: la mamma s’incavolava perchè il concorrente sbagliava risposte così semplici, il papà rideva quando la ghigliottina ha dimezzato quattro volte il capitale, il nonno beveva un’ombra di rosso mentre il concorrente pensava alla risposta giusta. Poi io ho detto: “adesso telefono a Carlo Conti e vi iscrivo”. Ho fatto per alzarmi e mi sono corsi dietro a nascondermi il cordless: “per carità!” ha urlato la mamma impazzita. La cucina di casa mia sembrava in preda al panico. Per una telefonata, capisci Signore. In quell’istante ho pensato al terzo servo del tuo Vangelo. E mi ha fatto tenerezza perchè stasera, magari per colpa mia, lo prenderanno tutti in giro. E non è giusto. Perchè ricordo che nei Vangeli c’è un solo miracolo che quando riesce procura gioia nel Cielo: quello che accade ogni qual volta uno lascia o rischia tutto per seguire Te e la tua follia d’Amore. Ma non sempre capita.
E pure un dubbio m’è rimasto a strozzarmi la gola mentre m’addormento: qualora tu entrassi dal cancello della mia bellissima casetta – dove, per l’appunto, c’è ancora in onda Carlo Conti -, mi troveresti a scavare una buca oppure fuori casa ad investire il capitale che mi hai immeritatamente accreditato?


Prossimo appuntamento
Giovedì 20 dicembre 2012 (ore 20.30): Come di chi trova tesori e perle (Mt 13,44-46)

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