utoya

Il sogno di chi aprì il fuoco quel pomeriggio dell’estate di quattro anni fa era quello di spezzare le ali a chiunque tenesse nell’animo l’ardire di fare del loro paese, la Norvegia, una terra che divenisse incrocio di culture, miscuglio di sangui, fratellanza di popoli. Una nazione dagli orizzonti allargati. Il risultato fu una pagina intrisa di disperazione e di speranza, sotto gli occhi di tutti.
Il volto della disperazione: 69 ragazzi uccisi a colpi di pistola nell’isola di Utoya, rei d’essere stati colti con addosso la voglia di lasciare il loro paese un po’ migliore di quello che avevano trovato. Nei mesi a seguire, Anders Behring Breivik venne condannato a 21 anni di galera, il massimo della pena consentito dalla giurisdizione norvegese. La faccia della disperazione, dunque, ma anche i lineamenti della speranza, tratteggiata nelle parole di Ivar, uno degli “scampati” a quella furia omicida: «Tu crederai forse di aver vinto – scrisse qualche giorno dopo il ragazzo all’assassino – A Utoya, in quella calda giornata di luglio, tu hai creato alcuni fra i più grandi eroi che il mondo abbia mai prodotto, hai radunato l’umanità intera». Con allegata quella splendida profezia giovane che fece tremare i polsi tant’era intrisa d’umana follia: «Io non sono arrabbiato. Io non ho paura di te. Non ci puoi colpire, noi siamo più grandi di te. Noi non risponderemo al male con il Male, come vorresti tu. Noi combattiamo il Male con il Bene. E noi vinceremo». Una condanna a morte lanciata sul capo di un uomo che negli anni a seguire non avrebbe mai mostrato il minimo segno di contrizione per la carneficina causata. Tant’è: chi sceglie di mescolare il bene con la storia, accetta anche di giocare in perdita, di partire da posizioni di rincalzo, d’essere tacciato d’ingenuità e di passeggero furore giovanile.
I manovali del bene – che in certi posti si sono dati l’appellativo di “cristiani” e in altri luoghi si riconoscono per il semplice fatto d’essere “uomini e donne di buona volontà” – sanno che la verità ama i tempi lunghi per potersi svelare in pienezza, per liberare il mondo dal peso della menzogna e della sopraffazione. Per ammaestrare l’umano distratto e arrogante a non confondere la buona educazione e la bontà come fossero una superficiale mancanza di carattere e di prospettive. Forse per questo la sconfitta di Breivik adesso raddoppia. Dopo aver scelto di rispondere al suo Male con il Bene, quest’estate l’annuncio diventa storia: l’isola di Utoya torna ad essere il luogo d’incontro che era prima della strage. Tornano i giovani a darsi appuntamento, si rimette mano ai vecchi discorsi interrotti, con le pietre delle case che qualcuno ha voluto far crollare si ricostruiranno case nuove, più fortificate. Saranno le stesse pietre di prima: pane e desideri, politica e impegno, passato e futuro. Presente: nel tempo presente, l’unico spazio ch’è concesso di abitare per firmare una storia da protagonisti. In questi anni l’isola è diventata una domanda capitale: che farne di quel pezzo di terra bagnato dal mare e dal sangue? Farla recedere nella memoria o farne un simbolo? Hanno scelto i giovani, gli stessi discendenti e amici di quelli azzannati quel giorno: han scelto di non dimenticarla. Nemmeno di farla diventare un simbolo, però. Hanno scelto di non fare di lei nessun’altra cosa se non quello per il quale era salita alla cronaca: un laboratorio di passione e di impegno nazionale.
Tornano i giovani a popolarla: loro hanno capito che, sotto sotto, quella terra è buona. E’ ancora più buona: certe terre migliorano quando l’acqua ne rinforza le falde, altre decuplicheranno il raccolto per essere state irrorate dal sangue martire di chi ha dato la vita per un sogno. L’avevano promesso: «Noi combattiamo il Male con il Bene. E noi vinceremo». L’hanno mantenuto.

(da Il Mattino di Padova, 9 agosto 2015)

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