“E’ la madre di tutte le storie – ci disse il prof di letteratura greca all’inizio di quell’anno-: se non vi sforzerete a scoprire questa storia, tutte le altre risulteranno difficili da capire”. Parlava dell’Iliade, dell’Odissea. Lui, però, ch’era smaliziato in fatto di incanto, ci parlava tra le righe della vita medesima: “Siccome la vita o è un viaggio o è una battaglia – era il non detto che ci trasmetteva – ogni storia, anche la vostra, è un’Iliade o un’Odissea: vi piaccia o non vi piaccia”. Di fronte a quel professore (professava, letteralmente, la fede nella materia che insegnava) stazionava una ciurma di quattordicenni in piena tempesta ormonale, alle prime armi con il latino e il greco: si era agli inizi del liceo classico, nella stagione del ginnasio. Di preciso non ricordo cosa intuii di quell’incipit così esistenziale, ma di sicuro ne avvertii la verità negli anni a seguire: se la mia vita è un’Iliade o un’Odissea – e lo è! – le battaglie più impegnative sono quelle che mi trovo a combattere di sera, a luci spente, davanti allo specchio. E lì, in quegli attimi, percepire la compagnia di Telemaco, Ulisse, Achille, Patroclo, Elena e tutta quella bella ghenga, certe sere fa la differenza: tra vivere ed esistere, vedere e guardare, tra sentire e ascoltare. Come sarebbe triste, oggi, la mia storia se non avessi avuto la fortuna di poter frequentare quel fantastico girone dantesco ch’è stato, alle superiori, il liceo classico. Fatto come l’abbiamo fatto noi: a tutta.
Certe stagioni, in quei cinque anni, le maledicevo nel mentre le vivevo: “A cosa mi servirà, per un domani, imparare una lingua morta com’è il latino, il greco e tutta la sua merceria?” mi ripetevo per auto-scoraggiarmi. Erano altre le scuole che assicuravano un avvenire più immediato, più remunerativo, meno laborioso come prospettiva. Io, però, a quell’età manco sapevo chi avrei voluto diventare, che cosa avrei voluto fare della mia vita: a cosa mi serviva, dunque, arrivare ad un lavoro il prima possibile se lo scopo ultimo della mia esistenza mi era ancora straniero? Appassionato di Pantani, Baggio e Mario Rigoni Stern – tutta gente a me contemporanea – mi trovavo a dover trascorrere intere notti, al lume di candela, per stringere amicizia con Omero, Anassimandro, Averroè, Avicenna, Senofonte, Talete, Socrate e compagnia bella. “Cos’avranno da dirmi questi – mi ripetevo – che sono vissuti nell’età della pietra. A me, poi, che sono nato nell’età d’oro delle comodità?” Attraverso quell’infinita litania dell’analisi logica e di quella grammaticale, non imparavo a riparare un rubinetto, a collegare l’elettricità, a fare di quattro mattoni un edificio. Tantomeno a sbattere le uova per fare la pasta, a mescolare uova e zucchero per estrarre lo zabaione come fosse petrolio. Eppure, sotto sotto, c’era un qualcosa che mi affascinava, una sorta di voce che mi convinceva che la fortuna è un dividendo del sudore: più sudi e più diventi fortunato. Insomma, non mi insegnavano tanto come funzionava il mondo ma avvertivo che stavano insegnandomi perchè stavo al mondo: per andare a conoscere me stesso. Per diventare l’esploratore di me stesso.
Frequentare il classico è stato come allenarmi su un tapis-roulant: la noia è proporzionale all’impressione di rimanere sempre fermo allo stesso punto. Finito l’allenamento, però, t’accorgi che i muscoli non sono più quelli di prima: si sono rinforzati, sei leggermente migliorato, hai alzato l’asticella. Attraverso l’amicizia con quella combriccola di gente antica – infettato dal loro conversare, dai loro sillogismi, dalle loro fantasticherie linguistiche – i tramonti mi parevano differenti, il solito paesaggio tradiva sfumature inedite, sentivo l’intelligenza acuirsi, la memoria mi appariva malleabile, duttile, poliedrica. Quando, il giorno della maturità classica, salutai quel mondo popolato di declinazioni e di coniugazioni avvertii una sorta di gratitudine. Se era vero che non avevo imparato nulla di manuale, era vero anche che avevo fatto l’incontro più esaltante tra tutti quelli possibili: quello con me stesso. Pensare a quante volte, in quegli anni, mi sembrava che non stessi andando da nessuna parte. E, invece, era solo la logica del tapis-roulant: nel frattempo, la mente si andava formando, trasformando. Si stava allargando la mia immaginazione, la fantasia andava acquistando potere, il sapere manifestava tutto il suo sapore.
Mi stavo attrezzando ad andare dappertutto, senza rischiare di perdermi.
Una risposta
Buongiorno don Marco, solo tu avresti saputo descrivere così mirabilmente la “potenza” del liceo classico.