[ Solennità dell’Esaltazione della Santa Croce ]
Raoul Follerau, l’apostolo dei malati di lebbra, racconta che un giorno arrivò in un campo di lebbrosi senza niente da offrire loro: né soldi, né vestiti, né medicine. Un po’ impacciato, disse: "Fratelli, non ho nulla da darvi, ma tornerò". Allora il capo del campo chiese a Follerau di stringere la mano ad uno ad uno e così lui fece. Una stretta di mano: era poca cosa, ma era tutto quello che in quel momento poteva donare. Se ne andò un po’ avvilito per non aver potuto fare quasi nulla. Poi un giorno gli arrivò una lettera: "Caro Follerau, al campo nessuno s’è lavato le mani per una settimana, per non perdere il profumo delle mani".
Lato B e lato A, il dietro e il davanti. Alle calcagna abita l’Egitto dei ladri, della schiavitù, delle pentole traboccanti di cipolle. Di fronte campeggia nella sua folgorante bellezza la Terra, quella Promessa: sogno antichissimo, vergine, luminoso. Azzardato. Tra il dietro e il davanti c’è tutto il rischio del cammino, questo traghettamento dell’antico popolo d’Israele che, partito dal Monte Cor, si sta dirigendo verso il mar Rosso per aggirare il paese di Edom. Guarda la precisione della geografia sacra: puntuale, definita, precisa! La marcia non è conclusa, ma siamo a buon punto: eppure il popolo si lamenta. Contro Mosè, contro Dio, contro la speranza. La schiavitù porta sempre una sua sicurezza: la libertà chiede come prezzo un rischio da correre. Il popolo si lamenta, s’infuria, s’arrabbia. I cronisti dell’epoca hanno raccolto una delle prime bestemmie contro Dio. In pieno deserto, cioè in zona pericolosa, sbraitano contro Dio: "perché ci avete fatti uscire dall’Egitto per farci morire in questo deserto? Perché qui non c’è né pane né acqua e siamo nauseati di questo cibo così leggero" (Nm 21,2-9). Nauseati del cibo leggero, del Dio faticoso, del Mosè esigente. Gente stanca di tutto: persino di camminare. Cioè di crescere, di diventare grande, di rischiare la felicità. Eppure il deserto è un talamo divino, è il luogo dell’intimità tra Dio e il popolo, l’incrocio nel quale dà appuntamento a chi vuole denudare per ricolorare di luce. "Ti condurrò nel deserto e parlerò al tuo cuore… Ti fidanzerò a me e ti farò mia sposa per sempre" – sussurra Dio per bocca del profeta Osea. Ma il deserto fa paura: quando sei bambino, quando diventi giovane, quando t’apri alla maturità. Quando sei papà, mamma, nonna, nonno, prete. Pure vescovo mi assicurano. Anche noi tante volte, abbiamo la sensazione che i nostri piedi tocchino la polvere del deserto. Proviamo paura perché della logica di Dio non sappiamo che farne. Tremiamo perché non vogliamo capire che anche Dio è entrato nel deserto. Lui, il Figlio di Dio, venne adescato dall’intuizione che il deserto, oltre che del silenzio, è anche l’ambito delle parole che contano. Oltre che degli ululati solitari è anche il luogo dove s’apprendono melodie. Oltre che riparo dall’assedio è anche recinto in cui incrociare la bellezza. Dio ci è entrato per attraversarlo, non per rimanervi. Per ripetere l’avventura dell’esodo verso la terra promessa. Per dirti che non sei solo, non sei l’unico, c’è un popolo che ha la residenza nel deserto. E per ricordare a te (che immagini di poter tutto) che non sempre è disposto a lasciarsi maledire, bestemmiare, scanzonare. C’è un Dio che si stanca: "allora il Signore mandò fra il popolo serpenti velenosi i quali mordevano la gente e un grande numero d’Israeliti morì". Anche Dio, Creatore dal genio insuperabile, si stanca. Nel vedere una Creazione deturpata, un Amore frainteso, una fiducia accecata. Un popolo che, trasportato su ali d’aquila, su carrozze di prima classe in testa al treno, trova ancora il gusto di ribellarsi. E quando Dio si stanca non scherza. Come quando ama non scherza. E il popolo ragiona, ha paura, chiede aiuto: "Abbiamo peccato, perché abbiamo parlato contro il Signore e contro di te: prega il Signore che allontani da noi questi serpenti". In pieno deserto, attaccato dai serpenti e dimentico di un Dio eccezionale il popolo ha paura. Trema. Chiede aiuto a Mosè, l’ultimo aggancio col cielo presente nell’accampamento. Stanco di un Dio esigente, demoralizzato da un popolo traditore e mormoratore, debilitato da anni di pascoli, passaggi e diplomazie, gioca la carta della preghiera. Ma Mosè non è un supereroe, semplicemente accetta di mettere in gioco tutto. Perché negli occhi di ogni creatura abita una preghiera, anche in quelle che non hanno occhi. Pregare è contemplare, piangere, stupirsi, sedursi. Ammirare, singhiozzare, sorprendersi. Sedersi, chiedere e attendere. Le cose non tengono nulla, ma tu puoi farle cantare, farle pregare! Alberi, montagne, pesci, coccinelle, neve, brina… tutto può passare nella tua mente e nel tuo cuore e farsi preghiera. Puoi diventare poeta dell’universo! Ed è bello pensare che Dio ti sfiora non solo nelle liturgie solenni delle cattedrali, nelle sinagoghe o nelle cappelle, nelle giornate mondiali o nei ritiri, ma anche – e soprattutto – nella vita comune, nel tran tran quotidiano. Nella vita comune, nei giorni di festa e nelle notti di burrasca. Ecco come nasce la sete della solitudine. E’ il desiderio del deserto che prende tutte le persone che Dio chiama. Se oggi la società sta andando a puttane, se stiamo allevando una società di neuropatici, è perché ci siamo lasciati fregare dalla mania del rumore, che comincia al mattino con la radio accesa, continua durante il giorno con il frastuono delle macchine e finisce a notte fonda con il diapason lacerante delle discoteche.
Suoni che non saziano: quando invece l’uomo è un essere affamato. L’uomo nasce affamato. Del pane, dei sogni, di speranza. Della musica, della poesia, dell’arte. Della vicinanza, dell’affetto, dell’intimità. Della sessualità, della spiritualità, della compagnia. L’uomo ha fame, non vuole rimanere solo. Ha paura quand’avverte di rimanere solo. Il popolo nel deserto non lo sa: ma, furioso, invoca Dio. Con la bestemmia, con l’insulto, con la maledizione ma lo va cercando. E quando la vita stringe ogni uomo cerca la mano, gli occhi, la carezza di chi gli ha dato più vita. Immagina una carezza offerta ad una sposa tradita, ad un padre senza lavoro, ad una bimba che perde la sua mamma. Nella Scrittura è legge certa il deserto. Di più: è garanzia che la pista è giusta. Che Lui non si sta grattando il capo. E’ nel deserto Dio firma i progetti più sostanziosi. Come – parola di De Andrè – è nel letame che nascono i fiori più belli. Non nei diamanti.
E’ notizia battuta più volte che il Buonarrotti scultore quando scrutava un blocco di marmo scorgeva già dentro l’opera d’arte: il suo lavoro non era altro che togliere il superfluo, il troppo che ingabbiava la statua. Stessa opera è l’uomo: c’è gia tutto. Resta solo da imbracciare gli strumenti e liberarla. C’è tutto, ma resta tutto da fare. Un conto è voler stare meglio, un conto è essere felici. Per stare meglio basta poco: innamorarsi ogni tanto, arraffare qualcosa, vedersi un tantino di stipendio in più. Un po’ come arredare una cella di prigione. Con la finestra chiusa e un abat-jour al posto del sole. Si può anche vivere così. Anche se noi siamo nati per farci baciare dal sole.
Dicono che a Tarso Paolo c’avesse provato: risultato fallimentare. Perché non è facile ingabbiare il sole. Soprattutto quando decide di scottarti la pelle!