Leggere brani come quello, tratto dalla Genesi, che propone la Prima Lettura della IV domenica dopo Pentecoste è un’attività che, spesso ci mette in difficoltà. Anzitutto, per un motivo: tendiamo a contrapporre una specie di Dio geloso ed oppressivo, vendicativo come un bambino dispettoso (che identifichiamo col Dio dell’Antico Testamento) al Dio “di Gesù Cristo”, che è il Padre Buono, misericordioso, quello che va a cercare il figliol prodigo (Lc 15, 11-32) o la pecorella smarrita (Mt 8, 12 – 14).
Il lungo dialogo con Abramo (omesso nel brano liturgico e seguente rispetto alla prima parte di quello proposto) ha tutto il sapore di una trattazione mercantilistica e commerciale, tradisce, in realtà la volontà di sottolineare come Abramo abbia un rapporto di stretta intimità con Dio, motivo per il quale può permettersi di diventare intercessore. L’episodio si colloca, infatti, subito quello dell’incontro coi tre uomini alla quercia di Mamre, in cui Sara e Abramo ricevono l’annuncio del compimento della promessa, del figlio atteso, tramite Isacco (che sarà chiamato così perché Sara, consapevole di essere avanti negli anni, alle parole degli stranieri, non riesce a trattenere il riso, tanto la notizia le pare priva di senso).
La domanda che è presupposta è: cosa fare, se in una città dove domina l’ingiustizia, vi è però un numero esiguo e irrisorio di giusti? Periranno, gli uni e gli altri, assieme?
La risposta è un no. Chi ha fiducia in Dio non verrà dimenticato, chi gli è fedele non può essere tradito da Chi non può essere altro che fedele a se stesso e alla Parola che pronuncia.
Ecco quindi che Lot, unico giusto di quella città, con i suoi familiari (esclusa la moglie, poiché si era voltata la città in via di distruzione, contravvenendo alle direttive ricevute) si salva, mentre tutti gli altri muoiono, in una sorta di “purificazione nel fuoco”.
Nonostante la salvezza di Lot, un episodio simile ci lascia, per l’appunto, come la moglie: una statua di sale. Sembra, in un certo senso, distruggere l’immagine che il Nuovo Testamento ci comunica di Dio.
Forse, però, riusciamo a comprendere meglio se applichiamo quanto letto non ad una città, ma alla nostra interiorità. Allora, non è più la paura ad assalirci, bensì la fiducia. Se la città è la nostra anima. E i malvagi che cercano di prenderne possesso e fare del male a noi e a chiunque entri in casa nostra sono i nostri peccati, ecco che quella distruzione totale accende la fiducia che la Grazia divina possa arrivare a completare la propria opera (cfr. Salmo 137), proprio laddove la nostra forza è inferiore all’effettiva necessità. Quando ci scoraggiamo di fronte ai difetti persistenti in cui continuamente ricadiamo, tanto da pensare che la Confessione a cui ci accostiamo e del tutto e, anzi, nel cuore ci alberga il dubbio che, in fondo, se non riusciamo a venirne a capo significa che stiamo prendendo in giro sia Dio che noi stessi e dovremmo, quindi, smetterla di accostarci al Sacramento… non cadiamoci! È quello che il Nemico vuole farci credere.
In realtà, con l’immagine di Sodoma e Gomorra, vediamo come, ogni volta che consentiamo alla grazia sacramentale di agire, essa ci rinnova, spazza via completamente ogni traccia del male, ma in modo selettivo, senza, cioè, sradicare quei germi di bene che cercano di trovare la luce (come Lot, che cerca di seguire la parola di Dio, anche in un contesto che, invece, ne è lontano). Di più: Dio non inizia la distruzione di Sodoma, finché Lot non è sano e salvo nella vicina Soar.
Ecco perché, anche noi, come Abramo possiamo “contemplare dall’alto Sòdoma e Gomorra e tutta la distesa della valle e vide che un fumo saliva dalla terra, come il fumo di una fornace”: questa visione diventa memoria di un Dio che arriva a portare a termine quanto noi non avremmo, da soli, nemmeno il coraggio di iniziare!
In quei giorni. Il Signore diceva: «Devo io tenere nascosto ad Abramo quello che sto per fare, mentre Abramo dovrà diventare una nazione grande e potente e in lui si diranno benedette tutte le nazioni della terra? Infatti, io l’ho scelto, perché egli obblighi i suoi figli e la sua famiglia dopo di lui a osservare la via del Signore e ad agire con giustizia e diritto, perché il Signore compia per Abramo quanto gli ha promesso». Disse allora il Signore: «Il grido di Sòdoma e Gomorra è troppo grande e il loro peccato è molto grave. Voglio scendere a vedere se proprio hanno fatto tutto il male di cui è giunto il grido fino a me; lo voglio sapere!». I due angeli arrivarono a Sòdoma sul far della sera, mentre Lot stava seduto alla porta di Sòdoma. Non appena li ebbe visti, Lot si alzò, andò loro incontro e si prostrò con la faccia a terra. Quegli uomini dissero allora a Lot: «Chi hai ancora qui? Il genero, i tuoi figli, le tue figlie e quanti hai in città, falli uscire da questo luogo. Perché noi stiamo per distruggere questo luogo: il grido innalzato contro di loro davanti al Signore è grande e il Signore ci ha mandato a distruggerli». Quando apparve l’alba, gli angeli fecero premura a Lot, dicendo: «Su, prendi tua moglie e le tue due figlie che hai qui, per non essere travolto nel castigo della città». Il sole spuntava sulla terra e Lot era arrivato a Soar, quand’ecco il Signore fece piovere dal cielo sopra Sòdoma e sopra Gomorra zolfo e fuoco provenienti dal Signore. Distrusse queste città e tutta la valle con tutti gli abitanti delle città e la vegetazione del suolo. Ora la moglie di Lot guardò indietro e divenne una statua di sale. Abramo andò di buon mattino al luogo dove si era fermato alla presenza del Signore; contemplò dall’alto Sòdoma e Gomorra e tutta la distesa della valle e vide che un fumo saliva dalla terra, come il fumo di una fornace. Così, quando distrusse le città della valle, Dio si ricordò di Abramo e fece sfuggire Lot alla catastrofe, mentre distruggeva le città nelle quali Lot aveva abitato.
(Gen 18, 17-21; 19, 1. 12-13. 15. 23-29)
Rif. prima lettura della IV domenica dopo Pentecoste, anno B, rito ambrosiano
Fonte immagine: Tempi di Maria