St Joseph with Infant Christ in his Arms*oil on canvas*126 x 101 cm*1620s

Sin dalla notte dei tempi, sin dai primi rifugi nelle grotte per proteggersi dal freddo e dagli animali feroci, l’essere umano ha sempre cercato di lasciare da qualche parte una traccia di sé. Pitture rupestri, graffiti e quant’altro, prima ancora che l’alfabeto fosse inventato, furono una sorta di grido silenzioso: noi siamo qui. Noi esistiamo, viviamo così. Ricordateci. Secoli dopo la scrittura renderà la strada della comunicazione tutta in discesa: dalle tavolette di argilla agli scarabocchi contemporanei sulle palazzine di ogni latitudine il passo è stato più breve di quello che sembra. Tempi diversi, diversi strumenti, stesso intento: la voglia di comunicare qualcosa agli altri. I social non hanno inventato niente di nuovo, in fin dei conti, hanno solamente dilatato a dismisura la parete su cui ognuno può esprimere il proprio io.
La nostra esuberanza di parole talvolta – anzi, a dire il vero piuttosto spesso – è come un oceano in tempesta, in cui ogni onda è la voce di qualcuno che vuole dire il proprio parere. Non è un male a prescindere, tranne quando diventa una gara a chi “urla” più forte.
E poi c’è lui. È come uno scoglio imperituro, destinato in eterno a non venire scalfito dalla marea di voci contrastanti che si schiaffeggiano reciprocamente.
Se dovessi dare un appellativo a quest’uomo, lo chiamerei il Patrono del Silenzio.
San Giuseppe, sposo di Maria, padre “adottivo” di Gesù, non pronuncia nemmeno mezza parola nei vangeli dell’infanzia. Nulla di nulla. Di lui tuttavia viene detto che “pensò, prese, fece, si alzò nella notte…”
Azioni, non parole.
In quest’epoca in cui ognuno di noi dice la sua in ogni dove il silenzio di quest’uomo pesa come un macigno. Ci costringe a fare i conti con l’essenziale che non lascia spazio a fronzoli, cioè con l’agire che mette in pratica pensieri e parole sconosciuti a più.
Cosa disse, quando scoprì che il figlio di Maria era l’atteso che il suo popolo aspettava da secoli? Non lo sappiamo. Però sappiamo cosa fece: accolse quella promessa di salvezza che Abramo ed i patriarchi avevano udito riecheggiare sotto ad un cielo trapunto di stelle. L’accolse non più come sogno lontano, ma come presenza viva, palpitante lì davanti a lui, nel grembo di una ragazzina di Nazareth che con il suo “sì” cambiò il mondo. Cosa disse, quando dovette fare i conti con la malvagità di Erode e fu costretto a mollare tutto e fuggire lontano? Non lo sappiamo. Ma sappiamo che si alzò, prese il bimbo e sua madre e andò in Egitto.
Di nuovo: azioni, non parole.
Giuseppe, Yoseph, dal verbo ebraico yasaph: “che Dio accresca/aumenti”.
Che Dio ci accresca nel silenzio.
In quest’anno a lui dedicato, l’augurio è che egli diventi per noi il mentore di questa pratica ormai così poco messa in atto. Stiamo ben lontani, tuttavia, da quel tipo di silenzio che è calma inattiva, che si mette un passo indietro per timore o pigrizia. Il silenzio di Giuseppe non è qualcosa in meno, ma – proprio come recita il suo nome – un valore aggiunto: è fare spazio alle azioni, alle opere concrete d’amore per le quali un solo gesto può valere più di un discorso chilometrico.
Ti auguro silenzio. Quello dalle chiacchiere, per fare spazio all’ascolto, a parole sussurrate all’orecchio che raccontano di amicizia, conforto, gratitudine, affetto.
Ti auguro silenzio. Quello dai grandi proclami sparsi ai quattro venti, per fare spazio a quell’operosità che è come una goccia che, con la sua costanza, sa scavare anche la roccia più dura.
Ti auguro silenzio. Quello dal mondo perennemente di corsa, per fare spazio a quella voce che, dall’eternità, ti sussurra “tu sei prezioso ai miei occhi, sei degno di stima ed io ti amo.” (Is. 43,4)

 

Immagine – Guido Reni: San Giuseppe. 

Vicentina, classe 1979, piedi ben piantati per terra e testa sempre tra le nuvole. È una razionale sognatrice, una inguaribile ottimista ed una spietata realista. Filosofa per passione, biblista per spirito d’avventura, insegnante per vocazione e professione. Giunta alla fine del liceo classico gli studi universitari le si pongono davanti con un bel dilemma: scegliere filosofia o teologia? La valutazione è ardua, s’incammina lungo la via degli studi filosofici ma la passione per la teologia e la Sacra Scrittura continua ad ardere nel petto e non vuole sopirsi per niente al mondo. Così, fatto trenta, facciamo trentuno! e per il Magistero in Scienze Religiose sfida le nebbie padane delle lezioni serali: nulla pesa, quel sentiero le sembra il paese dei balocchi e la realizzazione di un sogno nel cassetto. Il traguardo, tuttavia, è ancora ben lontano dall’essere raggiunto, perché nel frattempo la città eterna ha levato il suo richiamo, simile a quello delle sirene di omerica memoria. Che fare, seguire l’esempio di Ulisse e navigare in sicurezza o mollare gli ormeggi e veleggiare verso un futuro incerto? L’invito del Maestro a prendere il largo è troppo forte e troppo bello per essere inascoltato, così fa fagotto e parte allo sbaraglio, una scommessa che poteva sembrare già persa in partenza. Nei primi mesi di permanenza nella capitale il Pontificio Istituto Biblico sembra occhieggiarla burbero, severo nei suoi ritmi di studio pazzo e disperatissimo. Ci sono stati scogli improvvisi, tempeste ciclopiche, tentazioni di cambiare rotta per ritornare alla sicurezza del suolo natio. Ma la bilancia della vita le ha riservato sull’altro piatto, quello più pesante, una strada costruita passo dopo passo ed un lavoro come insegnante di religione nella diocesi di Roma. L’approdo, più che un porto sicuro, le piace interpretarlo come un nuovo trampolino di lancio, perché ama pensare che è sempre tempo per imparare cose nuove.

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