Sin dalla notte dei tempi, sin dai primi rifugi nelle grotte per proteggersi dal freddo e dagli animali feroci, l’essere umano ha sempre cercato di lasciare da qualche parte una traccia di sé. Pitture rupestri, graffiti e quant’altro, prima ancora che l’alfabeto fosse inventato, furono una sorta di grido silenzioso: noi siamo qui. Noi esistiamo, viviamo così. Ricordateci. Secoli dopo la scrittura renderà la strada della comunicazione tutta in discesa: dalle tavolette di argilla agli scarabocchi contemporanei sulle palazzine di ogni latitudine il passo è stato più breve di quello che sembra. Tempi diversi, diversi strumenti, stesso intento: la voglia di comunicare qualcosa agli altri. I social non hanno inventato niente di nuovo, in fin dei conti, hanno solamente dilatato a dismisura la parete su cui ognuno può esprimere il proprio io.
La nostra esuberanza di parole talvolta – anzi, a dire il vero piuttosto spesso – è come un oceano in tempesta, in cui ogni onda è la voce di qualcuno che vuole dire il proprio parere. Non è un male a prescindere, tranne quando diventa una gara a chi “urla” più forte.
E poi c’è lui. È come uno scoglio imperituro, destinato in eterno a non venire scalfito dalla marea di voci contrastanti che si schiaffeggiano reciprocamente.
Se dovessi dare un appellativo a quest’uomo, lo chiamerei il Patrono del Silenzio.
San Giuseppe, sposo di Maria, padre “adottivo” di Gesù, non pronuncia nemmeno mezza parola nei vangeli dell’infanzia. Nulla di nulla. Di lui tuttavia viene detto che “pensò, prese, fece, si alzò nella notte…”
Azioni, non parole.
In quest’epoca in cui ognuno di noi dice la sua in ogni dove il silenzio di quest’uomo pesa come un macigno. Ci costringe a fare i conti con l’essenziale che non lascia spazio a fronzoli, cioè con l’agire che mette in pratica pensieri e parole sconosciuti a più.
Cosa disse, quando scoprì che il figlio di Maria era l’atteso che il suo popolo aspettava da secoli? Non lo sappiamo. Però sappiamo cosa fece: accolse quella promessa di salvezza che Abramo ed i patriarchi avevano udito riecheggiare sotto ad un cielo trapunto di stelle. L’accolse non più come sogno lontano, ma come presenza viva, palpitante lì davanti a lui, nel grembo di una ragazzina di Nazareth che con il suo “sì” cambiò il mondo. Cosa disse, quando dovette fare i conti con la malvagità di Erode e fu costretto a mollare tutto e fuggire lontano? Non lo sappiamo. Ma sappiamo che si alzò, prese il bimbo e sua madre e andò in Egitto.
Di nuovo: azioni, non parole.
Giuseppe, Yoseph, dal verbo ebraico yasaph: “che Dio accresca/aumenti”.
Che Dio ci accresca nel silenzio.
In quest’anno a lui dedicato, l’augurio è che egli diventi per noi il mentore di questa pratica ormai così poco messa in atto. Stiamo ben lontani, tuttavia, da quel tipo di silenzio che è calma inattiva, che si mette un passo indietro per timore o pigrizia. Il silenzio di Giuseppe non è qualcosa in meno, ma – proprio come recita il suo nome – un valore aggiunto: è fare spazio alle azioni, alle opere concrete d’amore per le quali un solo gesto può valere più di un discorso chilometrico.
Ti auguro silenzio. Quello dalle chiacchiere, per fare spazio all’ascolto, a parole sussurrate all’orecchio che raccontano di amicizia, conforto, gratitudine, affetto.
Ti auguro silenzio. Quello dai grandi proclami sparsi ai quattro venti, per fare spazio a quell’operosità che è come una goccia che, con la sua costanza, sa scavare anche la roccia più dura.
Ti auguro silenzio. Quello dal mondo perennemente di corsa, per fare spazio a quella voce che, dall’eternità, ti sussurra “tu sei prezioso ai miei occhi, sei degno di stima ed io ti amo.” (Is. 43,4)
Immagine – Guido Reni: San Giuseppe.