«C’è un verso del salterio che mi ripeto spesso: “Vedi la mia povertà e la mia fatica e perdona tutti i miei peccati” (Sal 25,18) Chissà quante volte sbaglio nella mia giornata, ferendo qualcuno che non merita. La sera sento il bisogno di riappacificarmi con il mondo». Non ha la faccia del profeta antimafia: dietro gli occhiali trasparenti c’è tutto lo sguardo timido e discolo di Paolo Borrometi, giornalista ragusano di trentatré anni, al quale la mafia l’ha giurata da tempo. Ha ancora una spalla e mezza: la metà che manca gliel’hanno fracassata a mò d’intimidazione: «Il 16 aprile 2014 vado in campagna per dare da mangiare al mio cane – ci racconta con lo sguardo di chi, dopo quell’attimo, s’è trovato dentro una vita terribilmente diversa –. Da dietro, due sagome nere mi tendono un agguato. Uno mi prende il braccio destro, me lo gira dietro la spalla: un dolore atroce, persino a descriverlo. L’altro mi colpisce le gambe facendomi cadere. Poi si divertono a calciarmi, entrambi. Prima d’andarsene, mi urlano: “T’affari i cazzi tui. U’ capisti?” I trenta secondi più lunghi della mia vita. Il braccio, curato, è tornato quasi a funzionare. Quella frase, invece, mi martella in continuazione». Tre giorni per meditare sul da farsi, poi la decisione d’andare avanti. Di più: d’andare fino in fondo a quella strana faccenda che ha drogato la sua isola di un’ordinaria anormalità: «La mia terra è babba, (stupida) come diciamo noi: maldestramente convinta d’essere immune da qualsiasi presenza mafiosa per il solo fatto di averne esorcizzato l’esistenza». Un lembo d’Italia che ha visto nascere uomini come Giorgio La Pira, Salvatore Quasimodo, Gesualdo Bufalino, Piero Guccione, il giornalista Giovanni Spampinato «ucciso a ventisei anni per aver scritto troppo. Per me, quarantaquattro anni dopo la sua morte, è un mito ancora vivente».
Paolo lavora con la penna e il cuore sulla terra di Scicli, paese legato alla fortunata fiction Il Commissario Montalbano, e di Vittoria, il più grande mercato ortofrutticolo del Sud-Italia. Lo minacciano – “Stai attento”, gli scrivono nella sua station wagon -, lui insiste: pubblica, in estrema solitudine, la prima puntata sul boss di Scicli, quello che chiedeva il pizzo per ogni manifesto della campagna elettorale. Se non è vittoria, è purtroppo vendetta: rovinosa, tragica, secca. Anche asciutta: «Sono tornato a vivere dai miei genitori. Un giorno mi bruciano la porta di casa. Mio padre rilancia: “Mai giù, sempre su”». A Borrometi hanno fatto saltare i tendini della spalla, alle cosche ragusane sono saltati i nervi, anche a quelli delle ‘ndrine di Gioia Tauro. Il sindaco di Scicli viene raggiunto da un avviso di garanzia, il boss arrestato, la città di Montalbano commissariata. Il capomafia Gionbattista Ventura, che l’ha condannato violentemente a morte per averne svelato le trame criminali, spedito a processo: «Ho detto più volte che la terra di Trinacria non può essere solo terra di eroi, lapidi e commemorazioni. Un popolo di cinque milioni di persone non può accettare d’essere schiavo di poco più di settemila mafiosi». L’unico dovere di un giornalista è scrivere ciò che vede: «Sono nato con la voglia di raccontare la mia terra. Se un giornalista non scrive la verità avrà la responsabilità sulla coscienza dei soprusi dei cittadini vittime del malaffare». Parole che segnano percorsi, prendendo posizione.
Minacciato a più riprese, lo costringono ad abbandonare l’isola, vivendo sotto scorta: «La Sicilia è una terra straordinaria e disgraziata: la amo per questo. E’ una terra nella quale la mafia come ha avuto un inizio avrà anche una fine». La mafia, però, non lo perde di vista, ovunque egli vada: «Falcone diceva che sono due i modi per uccidere l’uomo: fisicamente o con l’isolamento. Troppe volte la Sicilia ha isolato chi faceva il proprio lavoro, salvo piangerli quando non ci sono più». Non si rassegna il giornalista Borrometi. Affina il fiuto, vanga i faldoni giudiziari, scava come un aratro nei dettagli più sottili. Ingaggia una battaglia temeraria contro le agromafie: «Un business che supera i 16 miliardi l’anno. Sono lo sfruttamento della persona, dal campo dove si raccoglie (il fenomeno del caporalato, ndr) al bancone dove si vende, passando per la gestione dei trasporti». Una vera holding: «Stidda e Cosa Nostra si dividono gli affari locali, la ‘Ndrangheta gestisce la cocaina, la Camorra gestisce i trasporti». Dietro i pomodori ciliegini, le melanzane e i frutti, il suo sguardo da cronista inflessibile svela il triangolo dell’ortofrutta: Vittoria, Fondi, Milano. La sfrontata intesa di una vera e propria holding: «Con il fenomeno delle agromafie abbiamo scoperto la capacità delle piovre criminali di fare squadra dividendosi la torta. E’ una torta enorme, c’è guadagno per tutti». La loro fortuna è stata quella di essere considerate mafie di “serie-b”: ignorate, hanno potuto agire indisturbate. Parole di denuncia, scagliate con nobiltà: «Non tutti gli uomini sono cattivi: molti sono infelici. Penso che dovremmo avere maggiore carità aiutandoli a costruire un’alternativa di vita. A questo dovrebbe servire il carcere, altrimenti saranno condannati allo sbaglio». Nell’inferno, fratellanza e carità non sono inferno.
La paura rimane accovacciata: «Ho tante paure, non le nascondo. Quando qualcuno mi passa accanto, ancora oggi sobbalzo. La paura più forte, però, è l’isolamento: l’ho vissuto, è atroce». Paura che stringe alleanza altrove: «Ho la grande fortuna di avere avuto il dono della fede: tante lacrime le ho versate durante le mie preghiere fatte di notte. Percepivo che non erano lacrime vane, erano lacrime-asciugate». Non c’è paura, però, più forte di chi, nell’inferno, non smarrisce l’ardire del sogno: «Rendermi conto, un giorno, che ne sia valsa la pena».
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Paolo Borrometi nasce a Ragusa il 1 febbraio 1983. Inizia la sua avventura giornalistica con Il Giornale di Sicilia. Collabora con l’AGI (Agenzia Giornalistica Italiana) per la provincia di Ragusa, Il Tempo e Articolo 21. Nel 2013 fonda la testata giornalistica di inchieste online La spia. Il 21 dicembre 2015 il Presidente della Repubblica gli conferisce l’onorificenza di Cavaliere dell’Ordine al merito della Repubblica Italiana. Nel 2016, nell’ambito del Premio Internazionale Biagio Agnes, gli viene conferita un premio speciale. Dall’agosto 2014 vive sotto la scorta dei Carabinieri.
(Marco Pozza, da Credere, 39/2016, 25 settembre 2016)