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E’ successo qualcosa d’incantevole: è nato. Si è inginocchiato: «E il Verbo si fece carne». Inginocchiandosi, ha esagerato. Fino a poggiare il suo respiro nel nostro, facendo di uno straccio di terra la sua dimora: «Ha piantato la sua tenda in mezzo a noi» (Gv 1,14). Nessuno, tra gli umani, potrà più vantare un parentado scellerato come il suo, quello narrato dall’evangelista Matteo: «La genealogia carnale di Gesù è spaventosa» (Ch. Pèguy). Nessuno, nel sogno di mettere per iscritto la sua storia, oserebbe partire com’è partito lui: sbattendo, in bella vista, tutti i peccati di casa sua. Le storie-di-regime parlano di vittorie, delle conquiste, di eroi ed eroine. La sua, invece, sarà una storia di grazia riversata in maniera copiosa: graziati, perdonati, assolti. Rialzàti. S’inginocchia, dunque: nel cercare Dio, tutti gli uomini vantano dei tentativi. A Betlemme è l’assurdo a farsi carne: è Dio a cercare l’uomo. Un giorno, diventato bellimbusto, lo dirà: «Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi» (Gv 5,16). All’inizio, appena bambino, s’inginocchia: che nessuno, di Lui, possa dire che predica bene e razzola male.
I primi a tentare di mettersi-di-traverso fu la sua stessa parentela: Ozia fu accusato d’incesto, Ioatam d’omicidio, Davide fece quello che ben sapete. Il suo albero genealogico è un misto di peccato, di carni eccitate, di corpi vendutisi, di sguardi inquieti. Nessuno, però, riuscì mai ad arrestare il fluire della Grazia: lei procedette a zig-zag, andando ad innestarsi nell’unico vergine rimasto in tutto quel casato: Giuseppe, carpentiere con bottega a Betlemme. La cui Maria, il miglior fiore di Galilea, è già dentro fino ai gomiti ad un’avventura più unica che rara: il suo grembo sarà la pista d’atterraggio dell’Eterno. A Betlemme – casa del pane, del Dio che sceglierà di farsi pane, amore masticato dagli amici – Dio ricomincia da un Bambino. In ginocchio: non s’impone, spia guardingo, bussa alla porta, ha bisogno. Non trova spazio: «Per loro non c’era posto nell’albergo» (Lc 2,7), proprio Lui che un giorno diventerà lo spazio d’incontro tra il Cielo e la Terra. E’ storia che si ripete: come accadde con gli antenati, neanche stavolta riuscirà ad alcuno bloccargli il sogno. Nessuno dei tre impreca: sono abituati ai rifiuti. Se ne vanno in direzione della campagna. Là, nella terra povera, il buon cuore terrà sempre una grotta a disposizione di viandanti rifiutati, di naviganti ribaltati, di poveri scartati. Che nessuno si monti la testa: la prima chiesa è una stalla, il primo ostensorio una greppia, la prima tovaglia fatta di paglia-e-sterco. La via che porta a Betlemme è già via crucis. Nessuno obbliga a seguire Cristo: a nessuno sarà concesso di modificare la segnaletica-stradale del Natale.
A Betlemme di Giudea – «nel bel mezzo di una tribù, fra i litigi, le gelosie, i piccoli drammi d’una numerosa parentela» (F. Mauriac) – Cristo nasce in carne e ossa. Lui, il mondo, lo vuole ammirare dai bassifondi: è per questo che nasce in ginocchio, giacchè il mondo non è lo stesso a guardarlo dall’alto o dal basso, da chi conquista o da chi viene conquistato. “Avete sbagliato voi?” sussurra alla terra ferita. “Pagherò io, di persona: è il mio regalo”. Quella notte nessun umano gli aprì la porta di casa, eppure Dio si era fatto postino della salvezza: capisce così poco l’uomo. I primi a vederlo sono pastori: la natura in ginocchio. Dopo di loro i magi: la sapienza in ginocchio. Erode non lo vedrà: d’inginocchiarsi, lui non ne vuole affatto sapere. Neanche Cristo ne volle sapere d’innalzarsi. A Betlemme, come a Berlino: nasce così in basso che, per fissarlo, occorrerà anche stavolta mettersi in ginocchio. Ne capiamo così poco noi, umani-sapienti: il coraggio di sospettare che la bellezza possa nascondersi negli stracci della miseria è il motivo per cui – nonostante tutto, proprio per questo – anche questa notte Dio nasce. Ancora bambino, muto, genuflesso. La potenza confinata nell’impotenza, il tutto nel frammento, Dio in terra: «Ha fatto risplendere la vita» (2Tm 1,10). La luce, in ginocchio, illumina: le tenebre, illuminate, s’accendono.

(da Il Sussidiario, 24 dicembre 2016)



Il Vangelo al femminile 

di Elettra Ferrigno

«L’ombelico del mondo è dentro una greppia»

Ombelico

Procedevano lenti, inerpicandosi a fatica sulle prime rampe delle vie di Betlemme. Maria, col ventre turgido e il cuore molle, e Giuseppe, con le mani ghiacciate e il cuore caldo. Dal giorno del “si”, ad ogni cambio di scenografia del divino regista, avrebbero fatto la loro parte. Ancora e sempre si: ad ogni come, ad ogni dove, ad ogni Sua Volontà. In quei giorni, riconoscendo anzitempo a Cesare ciò che era suo, lasciarono Nazareth e salirono in Giudea per farsi censire. Bisognava segnarsi nel luogo d’origine, ch’era Betlemme, essendo Giuseppe discendente della casa di Davide (liturgia della Solennitá del Natale del Signore). Dentro alla confusione di quelle strade, negli incroci di vite e nel grido di tutto il creato, nel punto più oscuro della notte del mondo, Dio aveva deciso di perdonare all’uomo e stava preparando la sua venuta organizzandola dentro lo spazio di un’antica profezia: «E tu Betlemme di Efrata, da te mi uscirà colui che deve essere il dominatore in Israele» (cfr. Mic 5, 1). Essa, la più piccola città di Giuda, non era, e giá la sua gloria era segnata. Lì – nella terra del pane bianco dei campi di Booz, dove nessuno spigola invano – mentre l’uomo stava per essere ridotto in numero, in carne fragile stava venendo Chi ai gioghi di potere preferì i giochi di Luce. Il Suo posto però -per non dire che un posto non l’aveva affatto – fu (sempre) fuori. Fuori dalle idee di chi s’immagina(va) un Re in veste di grande e potente. Fuori dei palazzi scintillanti della superba Israele, baldanzosi di umana grandezza, nuotanti nell’oro e negli agi della nazione giudaica, ricolmi di vana scienza e superbia dei sacerdoti del tempio. In una tana, al freddo e al gelo. Fuori da Betlemme, in aperta campagna: fra le macerie di un fabbricato in rovina vi era un pertugio, uno scavo nel monte più che una grotta. Con la volta piena di ragnatele e il suolo battuto e sconquassato, pieno di ciottoli, detriti ed escrementi, sparso di steli di paglia. Nella greppia, accanto al bue, un piccolo posto per l’asino ch’era, invece, ‘di proprietà’. Tra le correnti calde di due fiati, Maria si adagiò, e diede alla luce il suo primogenito, lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia: é stato un applauso di bestie il primo benvenuto al mondo del Salvatore. Fuori dei rumors e dei rumori: Maria taglia da sola il cordone ombelicale, fa il nodo del sarto, e avvolge in fasce l’ombelico del mondo. Forse chè Maria voleva attutire la luce di quel diamante splendente e incastonarlo, col Creatore, nella ‘montatura’ della storia, adattando quella Luce a occhi di ingiustizia e di menzogna? Certamente, senza il minimo filtro il mondo sarebbe rimasto accecato, dal momento che a nessuna tenebra sia mai riuscito di sopraffarla, quella Luce. Eppure é il personaggio più piccolo di tutto il Presepe, Colui che occupa minor spazio. Sembra quasi che chieda scusa, con quelle manine aperte, di essere capitato quaggiù in un giorno di festa. Avvolto in fasce, le stesse che pregne di nardo lo accompagneranno alla sepoltura, viene adagiato su una mangiatoia. É di Dio che stiamo parlando. Dell’Amore che sceglie di nascere Bambino nella squallida penombra di una grotta, il cui pianto é l’unico segno di potenza. «Un bambino non dà soggezione. Perfino la gente che non sa o non osa rivolgere parola ad anima viva, davanti ad un bambino si fa coraggio. Un bambino non tradisce, un bambino non fraintende, un bambino capisce ogni lingua» (don Primo Mazzolari). L’Onnipotenza si veste della più grande impotenza e chiede a tutti e ha bisogno di tutto. Fin dal Presepio, Gesù é di tutti. A braccia aperte venne, come a braccia aperte se ne andrá. Im-potente venne al mondo, come impotente lo lascerá. Il Presepio é fuori di Betlemme, come il Calvario é fuori di Gerusalemme. La stessa donna che ora lo adagia sulle braccia della vita, lo adagerá – deposto dalla Croce – sulle braccia della morte. Maria é una femmina che diventa donna proprio la notte del Natale. Anche se ha appena reciso il canale del vitale ombelico, ci sarà sempre un nervo che parte dal cuore di Lei per innestarsi nel cuore di noi figli, collegato all’ombelico del Figlio dell’Uomo. Quello sarà il punto di convergenza, la vena piena d’oro, il perno da cui la Vita nascente genera, di volta in volta, vite nuove, ri-nate dall’alto per mezzo di Colui che dall’alto é disceso per dare salvezza e donare tutto se stesso.
«Dalle provincie del grande impero sento una voce che si sta alzando: questo é l’ombelico del mondo e noi stiamo già ballando!». É il Gloria attuale, annuncio moderno di angeli che, instancabilmente, ci intimano di risalire, dentro noi stessi, la sorgente del respirare, e come ai pastori ci annunciano: «Oggi, nella città di Davide, é nato per voi un Salvatore, che é Cristo Signore». Dentro ad una greppia é l’ombelico del mondo: «il centro nevralgico da cui parte ogni nuova via, dove la vita si fa preziosa e il nostro amore diventa azioni; é qui che s’incontrano facce strane, di una bellezza un po’ disarmante, facce meticce di razze nuove come il millennio che sta iniziando; è qui che c’é il pozzo dell’immaginazione, dove le regole non esistono, esistono solo le eccezioni» (Lorenzo Jovanotti Cherubini). A rileggere questa storia nella propria storia, in effetti, nulla appare normale. Il Natale é un canto dai ritmi esotici che fa di un’eccezione qualcosa di eccezionale: «Un Dio, amico mio, si é scomodato per me» (C. Peguy).
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