M’incuriosisce il volto che è di una freschezza genuina, tipico di chi vive a contatto con la natura. Il volto, anche l’anagrafe: è una ragazza ventenne quella che ci appare dinanzi. Nella stalla con un paio di jeans, gli stivali da montagna, il cellulare nella tasca posteriore; dentro la casara con il grembiule e un’innata cortesia addosso. A Malga Larici di Sotto, negli incantevoli scenari raccontati da Mario Rigoni Stern, il mestiere del malgaro è un’eredità tramandata di padre in figlio, dal nonno al nipote: un’eredità che, mescolata con la passione, diventa un accattivante stile di vita. Una filosofia di pensiero. Siamo saliti lassù per lavoro, con quella curiosità bambina che mio nonno-agricoltore amava sintetizzare in una frase ripetuta come fosse una litania: “Vedrete che un giorno si tornerà alla terra”. Tradito amaramente dalla politica, minate le sue sicurezze quando andò in guerra, dibattuto tra mille pensieri, l’unica certezza – assieme all’amore della nonna – era rimasta la terra. Che era un orto, una campagna, un pezzo di montagna: “La terra non vi tradirà mai” ricordava a noi bambini che, giusto il tempo di terminare i compiti, lo seguivamo dappertutto.
La ragazza che ci accompagna è la malgara: quello che altrove potrebbe somigliare ad un’offesa – “Sei una contadina!” – quassù è il più bel complemento di identità, un complimento che non teme paragoni. Una malgara giovanissima: munge le vacche con la stessa facilità con la quale smanetta sul cellulare, volta il fieno con la stessa disinvoltura con cui si pettina i capelli, cammina nella terra fangosa con la stessa leggerezza con cui passeggerebbe in centro città. Fa uso del congiuntivo che è un piacere ascoltarla: qualcuno, sprovveduto, apprenderà che l’arte contadina è tutt’altra cosa dall’ignoranza dell’italiano. Mi stupisce quel suo chiamare le vacche per nome. Eppure – lo dovrei ricordare bene – il fatto ha certificazioni prestigiose: «Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me» (Gv 10,14). Il guadagno è sproporzionato in termini di quiete: siccome gli animali non hanno scadenze da rispettare, frequentandoli s’impara a vivere in maniera più naturale, rilassata. Evangelica se, guardandoli all’opera, la vita di quassù t’appare come una forma di ascesi: non ha religione, ma è pur sempre una sorta di trasfigurazione del quotidiano. Perché non c’è nessuna discoteca che possa mai competere, in quanto a valore, con la stalla di una contadina. E «quando chiude una stalla non è come quando chiude una discoteca. Quando chiude una stalla, un intero territorio si disconnette, si svuota di saperi, di ritmi, di piccole e grandi economie locali, di progetti per il futuro. L’agricoltura è un tessuto fitto, se si fa un buco si strappano tantissimi fili» (C. Petrini). I mille fili di un’appartenenza, di una tradizione, di un’antica cultura.
Salvarli è salvarsi: è professione di fede per Sara, per tutte quelle famiglie che, nella stagione delle sdraio, fanno dell’alpeggio e della mungitura una delle più belle lezioni di educazione civica. Da quelle parti, che sono le nostre-parti, qualcuno s’intestardisce nel dire: “siamo diventati foresti a casa nostra”. Mentre lo dice, non s’accorge che sta ricordando la più sincera verità: dimenticata questa, pensarsi padroni del suolo per spartirsi qualche quota è come ubriacarsi. Per questo, le malghe sono patrimonio della comunità, mai accetterebbero d’essere proprietà-privata: le si affida – su base d’asta che ancora oggi è espressa in litri di latte – ai residenti in quanto titolari di un numero civico. Paiono ragionamenti fuori-tempo, senza più nessuna moda. Per Sara è una scelta di campo. Anche il guadagno, viene misurato su quotazioni strambe: “È veder ritornare qualcuno a comprare il formaggio, sentendoci dire che come noi non lo fa nessuno”. Sara, alle superiori, ha fatto studi di ragioneria.
Quassù insegna ragioneria-applicata.
(da Il Mattino di Padova, 16 luglio 2017)
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