Ad un romanzo somiglia il Giro d’Italia. Un vecchio brogliaccio di polvere, scatti e divagazioni. Di storie anonime, di strade slabbrate, di paesaggi mozzafiato. Di storia, di epopea e di leggendaria poesia. Perché il Giro non è solo un’avventura d’agonismo e di rivalità, di arrivi in volata e di passaggi in alta quota ma rimane, ancor prima, il racconto di una Nazione che, raccontandosi, si denuda al pubblico del mondo. E’ la voce dell’Italia che per tre settimane si riversa sulla strada, si siede sulla soglia di casa, s’affaccia dal balcone anche solo per intercettare il fruscio silenzioso di quelle ruote così veloci e baldanzose da lasciarsi trattenere per poco più di un istante. Fugace è la bellezza, una questione di attimi e nulla di più: sfiorarla è rabbrividire, toccarla è accendersi, lasciarsi guardare è farsi segregare da ciò che sembra poco più di nulla. Eppur è poesia, di quella che stordisce i sensi per non far appisolare l’umano.
Scandali e inchieste, biciclette truccate e anime senza più benzina: poeti e mercenari, pittori e imbianchini, seduttori e traditori. Tutto ha visto il Giro in oltre cent’anni di vita: la sua storia è un incrocio di sangui e un confluire lento di storie, per lo più anonime e nascoste. Eppur nulla è riuscito a scalfire quel verecondo senso di magia che porta in sé al fiorire di ogni maggio. Forse per quell’essere una delle metafore più vere dell’esistenza: la salita e la discesa, il tunnel e la scarpata, i ranghi compatti e la solitudine. Il gregario, il bandito e il campione. Non c’è nulla, di ciò che è tipico dell’umano, che al Giro sia foresto: tutto tace, tutto sopporta, tutto spera. Le sue gesta più che di sport sanno di poesia, quell’arte eterna e mai appassita di insegnare la vita in una buccia di mela, in un raggio di luce, in una goccia di rugiada. Poesia sino all’osso, di quel linguaggio capace di parlare agli antenati e ai nascituri.
E’ l’Italia, splendida nella sua contraddizione. L’Italia che, solcata dalle veloci ruote di questi destrieri montati da uomini di sogni, si sveste per celebrare la sua normalità. Da Lampedusa al Colle delle Finestre, dalle strade bianche della Laguna a quelle altrettanto bianche e sterrate della Toscana, dai fiori di Sanremo alle nevi delle Alpi, dal mare di Chiavari al prosecco di Valdobbiadene. E, nel mezzo, cibo per tutti i palati: il profugo siriano e le sue peripezie su e giù per lo stivale, l’Italicum e le sue diatribe parlamentari, la “questione meridionale” e le infiltrazioni mafiose al Nord-Est. Eppoi Melfi, Pomigliano d’Arco e Taranto; ma anche la torre di Pisa, la cupola del Brunelleschi e i mosaici di Ravenna. Non c’è paese che al Giro sia straniero, non c’è terra che per lui sia invalicabile, non c’è uomo che gli sia foresto. Forse per questo, pur massacrato e umiliato, s’esalta ad oltranza; ama rinascere dalla cenere delle sue mille ferite. Ciò che lo rende bello non è l’approdo finale, ma la magia del cammino. Nei secoli fedele a Forrest Gump: «L’importante in una corsa non è il risultato finale ma quello che senti mentre corri».
Piacerà sempre questo racconto dell’Italia perpetuamente in giro, vagabonda e migrante per mestiere e per sangue. Per follia d’amore. Con quel tocco d’intrigo che lo rende poi unico tra gli amori possibili: il calcio t’invita allo stadio, il basket ti da appuntamento in un palazzetto, l’atletica t’organizza il divertimento su una pista. Il ciclismo, invece, ti viene incontro: passa lui da te, è lui che ti passa davanti casa, che si concede per farsi abbracciare. E’ un tocco di spensieratezza su anime disperse e stordite: tre settimane di storie e di racconti. Del racconto più bello, come nelle vecchie favole tradotte a scuola. Quelle che certe volte arrecavano in calce la vecchia frase: “De te fabula narratur” (“E’ di te che parla la favola”). E’ di te che parla il Giro. Ascoltalo.
(da Il Mattino di Padova, 10 maggio 2015)