Avere 96 anni sulla groppa e tenere la spensieratezza di un fanciullo e la passione di un navigato seduttore, pronto alla sorpresa e lesto a risvegliarsi ogni prima settimana di maggio. Parte il Giro d’Italia e riparte la secolare avventura di un gruppo vestito di colori che inanellandosi su vicoli, strettoie e cime alpestri racconterà, in sella ad un destriero, la splendida storia di una terra chiamata Italia. E’ una sfida sportiva: un manipolo di avventurieri sfiderà la sorte e si chiamerà battaglia lanciandosi a capofitto nelle discese ardite, danzando sinuosi sui tornanti di montagna, pancia a terra nel terreno infido delle cronometro. Una sfida umana: sotto le ruote delle biciclette scivola il respiro, gli aneddoti e le tradizione di una terra data sempre sul punto di crollare ma sempre pronta, sul limite, a ritrovare in sé la forza di risorgere. Una sfida spirituale: perchè per tre settimane l’uomo scenderà nel profondo pozzo della sua mente e del suo pensiero per scovare quel frammento di energia che gli permetta di superare un limite, di anticipare un avversario, di spostare anche di un solo secondo il proprio limite fisico. Il Giro d’Italia racconta lo sport, raccontando lo sport racconta la vita, raccontando la vita testimonia la speranza. Ha vinto su tutti e su tutto: sulle guerre e sulle imboscate, sui tradimenti e sulle scommesse, sul doping e sulle scorribande giornalistiche. La sua ragione, però, rimane in quelle due ruote che i suoi funamboli fanno scivolare lungo lo stivale: e scivolando lambiscono la grammatica di una nazione che nel ciclismo ha sempre visto la metafora di un possibile riscatto.
Uno sport nato povero, di una povertà che lo scorrere degli anni ha tramutato nella sua più splendida ricchezza: non chiede il biglietto d’ingresso, non permette alle curve di separare le tifoserie, annulla la distanza tra gli atleti e i loro tifosi. E’ uno sport umile: passa davanti a casa tua per non disturbare le tue faccende domestiche, batte le tue stesse strade che fai per andare a scuola, s’arrampica lungo la stessa montagna dalla quale scendi la mattina per andare al lavoro, s’intrufola nella stesso sentiero che di maggio porta al capitello della Madonna. La sua voce parla di sudore e di fatica, le sue vesti sono sporche di fango e inzuppate di polvere, il suo sguardo è affilato e delicato: il suo alfabeto è quello della gente comune, dei rioni popolari e delle contrade di montagna, del sole e della pioggia. Dell’Italia che sogna, s’affatica e si dispera. Forse per questo chi racconta queste gesta rischia a volte d’essere un poeta: quasi che il linguaggio ordinario non arrivi a descrivere il fruscio delle gomme sull’asfalto e la goccia di sudore che s’infrange sullo sterrato.
Ogni anno dicono che è l’ultimo a disposizione, dopo ogni scandalo la gente giura vendetta, dietro ogni risultato sta accovacciato qualche sospetto. Eppure lui, il Giro dell’Italia Ciclistica, ritorna puntuale ogni anno: solo il numero crescente delle edizioni è traccia dello scorrere delle stagioni. Tutto il resto è fanciullezza e brio, spavalderia e incoscienza, sorpresa e delusione: proprio come nella vita dell’Italia che si percorre. Quella che nell’antichità fece suo quel vecchio detto secondo il quale “solvitur ambulando” (“i problemi si risolvono camminando”). Proprio come con la bicicletta: a lasciarla ferma, cade. Sarà, dunque, il Giro dell’Italia a tutto tondo: di quel popolo estroverso e imprevedibile che, dato sempre in procinto di morire, spesse volte riesce a rialzarsi e spiccare un volo inaspettato. Forse per questo il Giro, nonostante tutto, non morirà mai: senza di lui sarebbe assai difficile spiegare la storia di una nazione che le prova tutte per farsi maledire. E come credito trova sempre un affetto più grande.
(da Il Mattino di Padova, 5 maggio 2013)