assenzaChe sia un momento bello o triste? Dipende da come la guardi quest’ora. Vista da quaggiù, tra orti e case che si rimpiccioliscono, questi frammenti di tempo sono infinitamente tristi, questo giorno chiamato nei calendari Ascensione in verità per noi è la fine di un lungo Natale. Tra queste nuvole misteriose si dissolve la magia e lo splendore di quella notte vissuta tra le colline di Betlemme. Perché se presepio significa “fare siepe” (con muri, stelline e spiagge di muschio) attorno a quel Bambino per imprigionarlo in una festa che richiama la nostra infanzia, con l’allegria dei nostri ricordi raccontati attorno ad un camino acceso oggi ci pensi e ti chiedi: “dove sono, a cosa sono serviti tutti quei presepi? Quel Bambino, diventato grande, è scappato. Che c’abbia fregato come troppi altri?”
Il presepio e la croce. Guarda che assurdità: l’Ascensione sembra essere più triste addirittura dell’ora della morte. Perché almeno la Croce lasciava un cadavere da imbalsamare di lacrime e di unguenti, da visitare con fiori e lanterne. Davvero illogico l’uomo se veramente un sepolcro in terra può dar maggior conforto di un punto irraggiungibile in Cielo che ti parla di speranza. Ma se d’un balzo quest’Uomo abbandona la terra nel pieno della sua giovinezza e della sua eclatante vittoria, nel sole delle sue amicizie e delle sue cene è solo per gridarci che anche noi qui non abbiamo la residenza eterna. Lasciando Betania e lo sguardo dell’amico Lazzaro, il silenzio del deserto e la confusione di Gerusalemme insegna anche a noi a lasciare le nostre case senza voltarci indietro. A sollevare in alto il nostro capo. Ma che cavolo! Noi, armati di cultura e di letteratura, capiamo solo che era tra noi e adesso non c’è più, che potevamo toccarlo e adesso sulla terra non rimane che l’impronta di quei piedi che uno sprazzo di vento presto cancellerà. Inutile nasconderlo: avremmo preferito un dio che restasse imprigionato dentro le nostre zolle, magari anche un dio di pietra come i vecchi idoli pagani, a cui tingere la fronte, ballare attorno, imprecare, sognare, ripartire. Chiedere sprazzi di miracoli per gente ingorda di magie.

In quel tempo, gli undici discepoli andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro indicato.
Quando lo videro, si prostrarono. Essi però dubitarono. Gesù si avvicinò e disse loro: «A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo». (Dal Vangelo di Matteo cap. 28 vv. 16-20)

Il difficile del nostro vivere comincia da questo momento. Quello sperone di monte sembra una scogliera di naufraghi abbandonati, con le barbe protese verso l’alto, i ciuffi neri e le teste calve che scolorano come un mucchio di marionette a spettacolo finito, il cuore turbato in un assurdo rimorso. Senza più quel Maestro geniale e imprevedibile noi vorremmo fermarci lassù migliaia di anni perché ci è stato detto che verrà precisamente alla stessa maniera. Ma non sarà possibile. Non lo è stato nemmeno per i discepoli: hanno dovuto obbedire, sono stati costretti a scendere assieme agli altri. Con un invito accorato da parte di due uomini in bianche vesti per non dare al Maestro l’ennesima impressione di non aver capito nulla: “Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo?” Attenzione: perché da quell’istante potrebbe nascondersi dietro un cespuglio, nel tronco cavo di un albero, in uno stagno di Galilea. Egli torna al Padre, ma quel Padre non abita oltre il volo degli uccelli. Egli è nelle brughiere spazzate dal vento, nei fienili sconosciuti divenuti locande improvvisate, sui crinali delle montagne, sotto il letto o sui tetti della città.
Sai cosa significa tutto questo? Che la storia non è un mazzo di inutili sussulti, di casini indecifrabili. Che quelli che stiamo percorrendo non sono sentieri interrotti. Che quel Dio che senti tremendamente lontano si è fatto inquilino di quell’appartamento privatissimo che si chiama “persona umana”. Sicchè il suo indirizzo provvisorio porta i connotati di ciascuno di noi. Di me, don Marco. Di te, Andrea. Di Chiara. Di Paolo. E chi vuol adorarlo non lo deve cercare nei quartieri residenziali del cielo, ma negli occhi della gente. Pensa che meraviglia: nulla ci sarà più straniero. Ogni terra dove poggeremo il piede la riconosceremo per una segreta memoria perché Lui l’avrà abitata. Ogni paese che lasceremo non lo abbandoneremo del tutto perché lasciamo Lui. Tutto lo spazio avrà il sapore di casa nostra, il profumo delle nostre radici. Non ci saranno più lontananze perché Lui si è messo in viaggio per il mondo.
Allora capiremo che questo è stato tutto un gioco per farci innamorare ancor di più di quell’Uomo. Allora capiremo che ha fatto finta d’andarsene. Lo capiremo da questo: non avremo più paura.
E da oggi non rimproveremo più le rose perchè hanno le spine. Ma impararemo a ringraziare le spine di custodire le rose. La mia splendida rosa.

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