Al mio annuncio, fatto confidenzialmente tra sbarre blindate – “domenica mattina viene il vescovo a trovarci” -, non si è lasciato sorprendere affatto. La sua risposta è stata di una evidenza evangelica schiacciante: “Era ovvio, lui è come papa Francesco”. Dove quell’ovvio non trattiene il sapore di una scelta scontata, ma della più spontanea conseguenza di una traiettoria che, ormai, è diventata una vera segnaletica stradale: il centro della Chiesa è la periferia. Don Claudio proprio come Francesco: un magistero fatto più di gesti che di parole.
Parte, dunque, dalla periferia della galera l’avventura apostolica del nuovo vescovo di Padova, da quella frangia dell’umanità che manda all’aria le logiche stesse d’amore. Non è possibile voler comprendere il detenuto per poi decidere se amarlo o meno: rimarrà un lupo bestiale, indigesto, funesto. Con lui vige invece la prospettiva opposta: la necessità di amarlo per poterlo capire un po’ di più, per rischiare di trasformarlo. E’ la risposta del Cielo all’urgente bisogno di sicurezza degli uomini: la certezza dell’amore anticipa quella della pena, perchè la pena non divenga tortura, un raddoppio d’insicurezza. Don Claudio i poveri li conosce, gliel’ho letto negli occhi nel nostro colloquio: ha dormito con loro negli ostelli, ne conosce i loro profumi e i loro odori, li ha sentiti respirare, digrignare i denti, maledire il ghiaccio accanto a lui. Quando l’hanno nominato vescovo, due di loro erano in episcopio a Mantova: la memoria dei poveri è la memoria di Dio, non dimenticano affatto. Non è un “prete di strada”: o si è sulla strada o non si è preti. E’ solo un prete al quale il buon Dio ha pensato di fare dono della dignità di vescovo, e che lui ha pensato altrettanto bene di farselo ricordare sempre: dargli del “tu” sarà l’avventura più ardita per chi ogni giorno doveva fare i conti con gli abiti ingessati dell’autorità. Se di un’autorità vuol sentirsi portatore, è solo dell’autorevolezza di chi da l’esempio perché altri ne seguano poi le orme.
Sono le prime scelte a segnare indelebilmente la considerazione che la gente nutre per un vescovo: la prima parola che dice, la prima parrocchia che va a visitare, i primi collaboratori che si sceglie, la prima forma di autorità che esercita. Sono momenti delicati, primigeni, da pesare fino in fondo: l’onore dei figli sarà diretta conseguenza dell’onorabilità che essi vedranno nelle gesta del padre, nella sua tenerezza, nella sua fermezza. Non è a caso, dunque, la scelta della prima parrocchia d’andare a visitare: dopo l’Opsa, cuore storico e pulsante della carità padovana, non poteva che toccare a loro. Non lo meriterebbero per le opere compiute, tocca loro per la sovrabbondanza dell’amore divino: nelle terre abbondanti di peccato, è sempre lì che la Grazia firma delle esagerazioni quasi assurde. Che la scelta sia poi quella giusta, ci pensa il Vangelo di questa domenica a fugare ogni dubbio: è la figura del cieco Bartimeo. A lui – cieco, accattone, solo – i discepoli dicono: «Coraggio, alzati, ti chiama». E’ la stessa frase che don Claudio ha scelto come motto episcopale: c’è dentro Francesco d’Assisi, l’eco di don Tonino Bello, la profezia di papa Francesco. C’è il chiasso confuso della strada: c’è semplicemente un vescovo con attorno i suoi poveri.
Dal particolare all’universale. Il vescovo belga Van Looy, in uno degli ultimi briefing a margine del Sinodo, è intervenuto dicendo: «Questo Sinodo inaugura la Chiesa della tenerezza e decreta la fine della Chiesa che divide il mondo in buoni e cattivi». Non c’era efficacia migliore: non esistono persone cattive, esistono solo persone infelici, alle quali la cattiveria parrà l’unica risposta da dare alla loro infelicità del cuore. Per costoro c’è una parola a disposizione, la più bella di sempre, quella inaspettata: «Coraggio, alzati, ti chiama!». L’ovvietà di quel detenuto è il benvenuto più bello: certi segni hanno dentro già dei sogni.
(da Il Mattino di Padova, 25 ottobre 2015)