boscaiolo

Ha confuso il mondo dando del tu a Dio, con una familiarità inaudita, quasi irriverente: «Abbà, Padre» (Mc 14,36). Sorpreso d’aver meravigliato con quel suo modo di volgersi a Dio, alzò l’asticella: certuni giorni, del Padre suo, disse ch’era un agricoltore. Un Dio espertissimo di terra e di concimi, di fertilizzanti e potature, d’innesti, di vendemmie. Di grano e d’attesa: fino a scorgere la vastità del Mistero nella stringatezza dei segni terresti, agresti: un chicco di grano, una misura di farina, un otre di vino. Poco più di nulla: eppure c’era il Tutto.
Anche in quel fico svogliato: «Sono tre anni che vengo a cercare frutti su quest’albero ma non ne trovo» (Lc 13,6-9). Di quella vigna, il padrone conosce a menadito ogni albero, da qualunque postazione la contempli ne indovina la geometria: il tempo che ha perduto per lei – a vangarla, piantarla, zapparla, concimarla – ha fatto di essa una terra diversa da tutte le altre: «E’ il tempo che tu hai perduto per la tua rosa che ha fatto la tua rosa così importante» (A. de Saint-Exupéry). Lo stesso tempo che, di lì a poco, raddoppierà il disgusto notando che l’amore non ha trovato risposta. Perché continuare a sfruttare quel terreno? «Taglialo!”», suggerisce al contadino (liturgia della III^ domenica di Quaresima). Che, lavorando di sorpresa, s’azzarda nel cercare un accordo, anche a costi di passare per impedito in fatto di botanica: il fico non ha bisogno di fertilizzanti, lo sanno anche i bambini. Perché perdere ancora tempo con chi non ha nessuna voglia di crescere? “Tu hai ragione, padrone, ma lasciami fare ancora un anno. Non segherò la pianta, anzi, con maggior cura le zapperò intorno, la concimerò, la poterò. Chissà che, stavolta, non porti frutto. Sennò, obbedirò”. La pazienza è una goccia: «Gutta cavat lapidem» (Lucrezio). La goccia scava la pietra: la misericordia scava la miseria. La misericordia è una goccia di pazienza in più.
Ancora un anno, implora il contadino: un anno ancora di sole, di pioggia, di lavoro e forse frutterà. Quel forse – più una feritoia che una finestra – è l’annunciazione dell’ardire divino: c’è una magra probabilità, Lui s’aggrappa come un’ostrica allo scoglio nel quale il destino l’ha sbattuta. Mica imbelle quel padrone: per lui il bene possibile di domani conta assai di più dell’infecondità degli ultimi tre anni. Della svogliatezza di un’intera generazione di uomini-fichi, ai quali viene concesso ancora del tempo: a Ninive erano giorni in numero di quaranta, nella vigna sono anni in numero di uno. «Ancora quest’anno»: complemento di tempo determinato. Il Cielo, per le cose che lo riguardano, usa il per-sempre, complemento di tempo continuato: «Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,20) Certe andature, però, all’uomo sa di non poterle chiedere senza arrischiarsi di farlo andare fuori-giri. Un-anno, dunque. Che, a ben pensarci, è la durata stessa della mia storia: mica trentasei anni, bensì uno più uno fino ad arrivare a trentasei. Per poi guardare all’indietro la mia storia d’amore con lui e scoprire che la sequela è un contratto a tempo determinato con la certezza, dipendesse da Lui, di diventare continuato, eterno.
Ancora un anno, dunque. Poi? Potrebbe tagliarmi. C’è una diagnosi, però, che gioca a mio favore: Dio ha grossi problemi di memoria. E’ da quando sono nato che me lo dice: “Ancora un anno”. Ogni anno si dimentica d’avermelo già detto l’anno prima: in questo somiglia assai alla mamma. Oppure la mamma somiglia a Dio: quando fa così, la mamma è amabilissima. Un po’ meno quando mi dimostra di non essere tonta: “Guarda che te l’avevo già detto l’anno scorso. Attento”. Approfittiamone! Non aver capito un fico-secco. Disperiamoci? A Dio il vincere-facile non attrae. Che fare? Commuoversi, che ad un fico svogliato sia data un’altra possibilità. Esser-fichi più che un vanto è un contratto a tempo determinato: renderlo continuato è il sogno di Dio. La causa della misericordia.

(da Il Sussidiario, 27 febbraio 2016)


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