Figli e schiavi_ filo spinato aperto

Da servi a figli

Dalla radicale appartenenza a una stirpe, quale imprescindibile elemento di connotazione identitaria ad una figliolanza radicale, che ritrova, in Cristo, il Figlio di Dio, il compimento dell’attesa della fede di Abramo.
In altre parole: “Figli di Abramo” è sufficiente per essere “figli del Padre”?

La domenica di Abramo

La III domenica di Quaresima, nel rito ambrosiano, è detta “di Abramo”, in quanto imperniata intorno al brano giovanneo, in cui Cristo dibatte coi Giudei, che asseriscono di essere “discendenza di Abramo”.
È interessante, anzitutto, notare in quale punto si collochi questo brano, nell’economia del vangelo di Giovanni. L’ottavo capitolo si apre con una preghiera, solitaria, di Cristo sul Monte degli Ulivi, che rende ragione del fatto che tale luogo gli fosse particolarmente familiare, quando bazzicava i dintorni di Gerusalemme. Segue, poi (8,2-11), la predicazione al tempio, bruscamente interrotta da una “messa alla prova”, da parte di scribi e farisei, che gli sottopongono il caso di una donna sorpresa in flagrante adulterio. A questo episodio succede (8,12- 30) un annuncio della propria missione, con un riferimento piuttosto esplicito della Croce, oltre che della propria figliolanza divina.

Una scena catechetica insolita

Il brano liturgico si apre con una scena delimitata in particolar modo rispetto all’uditorio (“quei Giudei che avevano creduto in lui” – 8,31): il dialogo pare essere inserito in un contesto che è già di fede (oltre il primo annuncio). Eppure, vediamo un’opposizione feroce, tanto che sfocerà, in modo abbastanza stridente rispetto alla primitiva descrizione, nel finale del capitolo, con un tentativo di lapidazione nei riguardi di Cristo (8,59). Tra questi due estremi, troviamo il dialogo, via via più serrato, tra la predicazione di Cristo e la “resistenza” giudaica. 

Verità e libertà

«Se rimanete nella mia parola, siete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi»
«Noi siamo discendenti di Abramo e non siamo mai stati schiavi di nessuno. Come puoi dire: “Diventerete liberi”?». (Gv 8,31-33)

Il primo scambio di battute verte su verità e libertà. La risposta dei Giudei, però, si disinteressa completamente della verità, sentendosi punti sul vivo rispetto alla libertà. Se l’ipotesi è di non conoscere la verità, ne consegue che non sono liberi. Gli interlocutori di Gesù, però, vorrebbero intendere un significato concreto, che alla fine diventa controproducente, perché evidenzia come, anche da quel punto di vista, ciò non sia vero, anche solo pensando alla schiavitù del popolo d’Abramo in Egitto, che l’Esodo ci racconta. 

La schiavitù del peccato

«In verità, in verità io vi dico: chiunque commette il peccato è schiavo del peccato. Ora, lo schiavo non resta per sempre nella casa; il figlio vi resta per sempre. Se dunque il Figlio vi farà liberi, sarete liberi davvero. So che siete discendenti di Abramo. Ma intanto cercate di uccidermi perché la mia parola non trova accoglienza in voi. Io dico quello che ho visto presso il Padre; anche voi dunque fate quello che avete ascoltato dal padre vostro» (Gv 8,34-38)

La verità, quale forma di enfasi, ritorna nella risposta di Gesù, che esplicita il carattere profondo della libertà di cui parla. La vera libertà risiede nel bene. Aderire nel bene, compiendo la volontà di Dio, è ciò che fa fiorire l’umano: il male si insinua come un intruso, potendo solo abbruttire ciò che, nel disegno di Dio, era nato buono e gradevole (cfr. Rm 7,21 “quando voglio fare il bene, il male è accanto a me”). Accogliere la Parola: nel Vangelo di settimana scorsa , nell’assolato meriggio di Samaria, abbiamo trovato una donna assetata che diventa “missionaria” e instilla il dubbio della possibilità di credere (“Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto. Che sia forse il Messia?” – Gv 4,29 ) nei suoi compaesani. Ora, a Gerusalemme, la città santa, incontriamo l’opposizione e l’incredulità.

Schiavi e figli

Come non tornare, con la mente, alla parabola del Padre misericordioso (Lc15, 11-32), in cui troviamo un figlio che scappa, ne tentativo di essere libero e un altro che resta, ignaro di vivere da schiavo, invece che da figlio, nella casa del padre? Due figli diversi, ma entrambi persi: uno fuori di casa, l’altro, addirittura, dentro casa. Persi, perché erano entrambi schiavi. Ma in vantaggio era il minore. Perché così è anche nella vita spirituale e di fronte al peccato.

Malati, per guarire

Il primo passo è sempre accorgersene. Per guarire, bisogna accorgersi di essere malati. Spesso, è questione di osservare con attenzione. Come quando una malattia è in fase di incubazione: i primi sintomi, talvolta, possono essere sottovalutati, perché confusi con mali irrilevanti. In realtà, è bene non trascurarli, perché, qualora si attendesse di vedere palesati i sintomi successivi, questi già iniziano a condizionare la nostra vita. Il figlio minore ritorna perché conta di non essere cacciato; il figlio maggiore, invece, non ha il coraggio di chiedere un capretto per fare festa. Il figlio minore, nel suo ritorno, dopo aver dilapidato ogni cosa, sta iniziando a capire cosa significhi essere figlio. Al contrario, il maggiore, finché il minore non ne provoca l’ira con il proprio ritorno, ha continuato a vivere, sotto il tetto paterno “come uno dei suoi salariati” (Lc 15,19).

Dio e Satana

«Se Dio fosse vostro padre, mi amereste, perché da Dio sono uscito e vengo; non sono venuto da me stesso, ma lui mi ha mandato. Per quale motivo non comprendete il mio linguaggio? Perché non potete dare ascolto alla mia parola. Voi avete per padre il diavolo e volete compiere i desideri del padre vostro. Egli era omicida fin da principio e non stava saldo nella verità, perché in lui non c’è verità. Quando dice il falso, dice ciò che è suo, perché è menzognero e padre della menzogna. A me, invece, voi non credete, perché dico la verità. Chi di voi può dimostrare che ho peccato? Se dico la verità, perché non mi credete? Chi è da Dio ascolta le parole di Dio. Per questo voi non ascoltate: perché non siete da Dio» (Gv 8,42-47)

Gesù propone una contrapposizione, una scelta di campo molto netta. O Dio o Satana. O il bene o il male. Parole imbarazzante, per la nostra mentalità abituata spesso alla mediazione e, a volte, diciamo pure al “quieto vivere”. Il ragionamento è quasi di sapore ellenistico, più che giudaico. Il simile va con il simile. Se Cristo potesse essere un peccatore, potrebbe non essere credibile sulla sua bocca, la verità. Così non è, per cui se Cristo pronuncia verità e non commette peccato, non si possono trovare giustificazioni. Chi non segue la verità, le preferisce la menzogna, nata da Satana che, per primo, la pronunciò per ingannare l’umanità, causando l’ingresso della morte e della caducità.

Una fuga strategica

«In verità, in verità io vi dico: prima che Abramo fosse, Io Sono». Allora raccolsero delle pietre per gettarle contro di lui; ma Gesù si nascose e uscì dal tempio. (Gv 8,59)

Un’ostilità che diventa pietra da scagliare, tanto il cuore è chiuso. Di fronte alla parola ontologica (“Io Sono”), gli interlocutori hanno sempre un fremito. Così sarà anche al Getsemani (cfr. Gv 18, 5-6), quando Cristo vivrà le proprie ultime ore incarnato nel tempo della storia umana. Di fronte a quest’ostilità, Gesù sfugge. Testimonianza, al contempo, sia d’amore per la vita che del realismo per cui, quando l’opposizione è estrema, neppure la Verità in persona è in grado di piegare una volontà pregiudizialmente contraria.

Il ruolo liberante della grazia

Dall’illusione d’essere giusti, in virtù della propria stirpe gloriosa, su cui puntano i Giudei emerge, però, una buona notizia: il ruolo liberante della grazia. La mia volontà può opporsi “fino alla morte” alla Parola di Dio, ma la vera libertà è raggiungibile. Passa dal riconoscere che stiamo agendo da servi, facendo leva su schemi tutti umani, legati alle prescrizioni e alla legge, che ci arrabattiamo di rispettare. La libertà iniziare quando la convinzione che l’amore di Dio supera ogni mio peccato innerva ogni fibra del mio essere e il desiderio di bene è sospinto dalla volontà di cimentarmi in quella stessa gratuità che ho sperimentato in prima persona.


Rif. Vangelo festivo ambrosiano (Gv 8,31-59), nella III domenica di Quaresima, anno A:

Fonti: TOMMASO D’AQUINO, Commento al Vangelo secondo Giovanni, ESD, Bologna, 2019

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