bienaventuranzas fano 2017

“Un-due-tre… stella!”
Peter Pan si volta con scatto fulmineo, mentre Darth Vader e Minnie stanno ancora correndo verso di lui. Colti in flagrante, vengono rispediti al punto di partenza, tra sbuffi e proteste di indignazione. Poco più in là Elsa, Spiderman ed Harry Potter giocano a rincorrersi e sfrecciano accanto a due centurioni che fanno pratica di scherma con lucenti spade in morbida spugna.
No, non è l’ultimo film targato Disney, ma un normalissimo martedì grasso trascorso tra le mura di scuola, tra festicciole e recite, travestimenti dei più svariati e qualche stella filante posta a tradimento tra i capelli. E tante, tante risate.
Bando alle ciance: il riso è una questione serissima, alla faccia delle apparenze.
Ha richiamato l’attenzione di scrittori e filosofi di ogni epoca, dalla Grecia classica e lungo le strade della letteratura latina; ha coinvolto fior di teologi in dispute epocali – chi non ricorda quella al centro della trama ne Il nome della Rosa di Umberto Eco? – e fior di psicologi in sfide a suon di pubblicazioni e ricerche sperimentali.
Infine, è stata una delle tematiche affrontate fin dai primi giorni di insediamento di Papa Francesco, che ha invitato i cristiani di ogni luogo a portare l’annuncio evangelico con una gioia che fosse visibile e tangibile, una sorta di bollino di garanzia, perché l’amore di Dio è fonte di felicità e non deve essere annunciato con “facce da peperoncino all’aceto.” (Omelia in Santa Marta, 10 maggio 2013).

Parlare di riso, risate e amenità simili nel primo giorno di Quaresima forse può sembrare fuori luogo, una sfacciataggine che si prende irrispettosamente gioco della compostezza e della riflessione che accompagna il periodo che precede la Pasqua. Quaresima tempo di penitenza e preghiera, tempo di piccole o grandi rinunce, giorni in cui ci prepariamo con mente e spirito al cammino verso il Golgota.
Eppure è proprio il Vangelo a venirci in aiuto, per aprirci l’animo e a suggerirci di evitare le smorfie di quel peperoncino all’aceto, pur mantenendo intatto il valore del tempo che ci apprestiamo ad affrontare.
“Quando digiunate, non prendete un aspetto triste come gli ipocriti… tu invece ungiti il capo e lavati il volto.” (Matteo 6, 16-17)
Non usa mezzi termini, questo Rabbì di Nazareth. Chi si compiace nel mostrarsi penitente è un ipocrita, inteso nel suo significato originario: quello di un attore teatrale che ha il compito di imitare un altro personaggio della storia. Uno che finge non una ma due volte, in parole povere, uno in cui non è bene riporre la propria fiducia.
“Tu invece ungiti e lavati”: fatti bello, perché tale sei stato creato. Non piegare gli occhi all’ingiù, ma apri la bocca al sorriso che illumina il volto e scalda il cuore di chi ti sta accanto. La gioia che vi unisce tra fratelli m’è più cara della misurata compostezza di chi si ostina ad imbruttirsi per darsi delle arie, credendo di compiacermi.
È una delle manifestazioni più belle e tipiche dell’umanità – il riso – qualcosa che ci rende così splendidamente unici e diversi dal resto del creato. È la capacità di scatenare la gioia e far brillare gli occhi e non è un caso che siano proprio i più piccoli coloro che meglio sanno contagiare chi li circonda e riempire l’aria con le loro risate argentine.
Riso e preghiera: non un ossimoro, non qualcosa che si esclude a vicenda, ma entrambi bastoni che possono sorreggere il nostro cammino, passo dopo passo, lungo la strada verso il Golgota. La nostra umanità alberga in tutti e due, ha bisogno dell’uno e dell’altra per elevare mente e spirito.
Sia ben chiaro, non si tratta di sminuire quei sacrosanti momenti in cui il dolore prende il sopravvento e chiede giustamente di poter essere manifestato, né è un invito a quella felicità a tutti i costi che volta lo sguardo altrove per non incontrare l’affanno del nostro prossimo.
Si tratta invece di “abbigliare il cuore” – come recita la volpe de Il Piccolo principe – una vera e propria abitudine vestita d’attesa mai stanca e di affetto smisurato che freme di potersi riversare come pioggia abbondante, per fare spazio al divino che ci invita a camminare con lui e per accoglierlo come egli merita. Vale a dire: con gioia.

 

“Signore, donami una buona digestione
e anche qualcosa da digerire.
Donami la salute del corpo
e il buon umore necessario per mantenerla.
Donami, Signore, un’anima semplice
che sappia far tesoro
di tutto ciò che è buono
e non si spaventi alla vista del male
ma piuttosto trovi sempre il modo
di rimettere le cose a posto.
Dammi un’anima che non conosca la noia,
i brontolamenti, i sospiri, i lamenti
e non permettere
che mi crucci eccessivamente
per quella cosa troppo ingombrante
che si chiama “io”.
Dammi, Signore, il senso del buon umore.
Concedimi la grazia
di comprendere uno scherzo
per scoprire nella vita un po’ di gioia
e farne parte anche agli altri.”
(Tommaso Moro, Preghiera per il buon umore)

 

Vicentina, classe 1979, piedi ben piantati per terra e testa sempre tra le nuvole. È una razionale sognatrice, una inguaribile ottimista ed una spietata realista. Filosofa per passione, biblista per spirito d’avventura, insegnante per vocazione e professione. Giunta alla fine del liceo classico gli studi universitari le si pongono davanti con un bel dilemma: scegliere filosofia o teologia? La valutazione è ardua, s’incammina lungo la via degli studi filosofici ma la passione per la teologia e la Sacra Scrittura continua ad ardere nel petto e non vuole sopirsi per niente al mondo. Così, fatto trenta, facciamo trentuno! e per il Magistero in Scienze Religiose sfida le nebbie padane delle lezioni serali: nulla pesa, quel sentiero le sembra il paese dei balocchi e la realizzazione di un sogno nel cassetto. Il traguardo, tuttavia, è ancora ben lontano dall’essere raggiunto, perché nel frattempo la città eterna ha levato il suo richiamo, simile a quello delle sirene di omerica memoria. Che fare, seguire l’esempio di Ulisse e navigare in sicurezza o mollare gli ormeggi e veleggiare verso un futuro incerto? L’invito del Maestro a prendere il largo è troppo forte e troppo bello per essere inascoltato, così fa fagotto e parte allo sbaraglio, una scommessa che poteva sembrare già persa in partenza. Nei primi mesi di permanenza nella capitale il Pontificio Istituto Biblico sembra occhieggiarla burbero, severo nei suoi ritmi di studio pazzo e disperatissimo. Ci sono stati scogli improvvisi, tempeste ciclopiche, tentazioni di cambiare rotta per ritornare alla sicurezza del suolo natio. Ma la bilancia della vita le ha riservato sull’altro piatto, quello più pesante, una strada costruita passo dopo passo ed un lavoro come insegnante di religione nella diocesi di Roma. L’approdo, più che un porto sicuro, le piace interpretarlo come un nuovo trampolino di lancio, perché ama pensare che è sempre tempo per imparare cose nuove.

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