La prima immagine che ci offre la liturgia, a partire dalla prima lettura, è quella di un banchetto.
Rifacendosi al mitologico mostro marino Leviatano, sconfitto da Dio, nella cultura ebraica è diventato impossibile pensare ad una “tavola della festa” senza la presenza di piatti di pesce, a ricordo di ciò. Così come rimane la vivanda principale di tutti i numerosi banchetti presentati dall’Antico Testamento.
L’immagine di un banchetto richiama subito quella di gioia e di festa. Il cibo e la compagnia sono, del resto, nel patrimonio dell’immaginario collettivo, forieri di ricordi lieti e gioviali, di tempo trascorso in quell’ozio che fa bene al cuore e riempie l’animo di amicizia, concordia, spensieratezza.
Eliminerà la morte per sempre (Is 25,8)
Questa fotografia di gioia e di festa trova il suo significato più profondo nella salvezza compiuta, dopo lunga attesa e nel trionfo su tutte le paure, a partire da quella che, più di tutte, da sempre, attanaglia ed ottenebra il cuore dell’uomo, desideroso d’eternità, in costante contrasto con la sua natura mortale, ereditata dal suo essere animale.
Per questo, dopo l’ invito ad un banchetto di “vini eccellenti, di cibi succulenti, di vini raffinati”, Dio “asciugherà le lacrime su ogni volto”: potremmo pensare che si tratti di un diversivo, questo banchetto, non fosse per la precisazione precedente. Non è un’arma di distrazione di massa: prospetta la risoluzione, in positivo, del desiderio di felicità umano, dopo averne sconfitto i principali motivi di insoddisfazione e di tristezza.
Nella seconda lettura, san Paolo porta alla nostra attenzione la figura di Abramo. Per noi cattolici, che celebriamo la memoria di tutti i Santi – e, più ancora – per il popolo d’Israele, i patriarchi e Abramo in particolare sono come stelle, nel nostro cammino. Forniscono cioè un indirizzo, oltre che un modello. Non sono “specchio di perfezione”, in senso stretto (solo Cristo è l’Uomo Perfetto): tuttavia, proprio nelle loro incongruenze ed imperfezioni, ci incoraggiano verso una santità possibile, costruita nel quotidiano, con la certezza che la vera gioia, quella di cui è possibile vivere la pienezza scevra dell’insoddisfazione del finito che sperimentiamo sulla Terra, è di là da venire: sospirata, desiderata, non attuata nel presente, ma attuabile solo tramite la paziente costruzione che, proprio nel presente, avviene. È qui ed ora che costruiamo le condizioni necessarie a farci assaporare la gioia vera, tramite il desiderio, la conoscenza e l’edificazione nel bene di noi stessi e delle persone che ci sono affidate.
Anche nel Vangelo, troviamo un banchetto: in forma di parabola, Gesù ci racconta di un invito a nozze, che un re manda, in onore delle nozze del proprio figlio. L’entusiasmo è alle stelle e noi percepiamo come davvero il sovrano ci tenga a vedere la propria festa riuscita, piena di invitati che accorrano e si divertano, al proprio palazzo, tra canti e danze, così da condividere un momento di gioia, tutti assieme. Pare però che lo stesso entusiasmo non sia condiviso da chi riceve l’invito. Ognuno trova una scusa, un alibi per non presentarsi, come capita per quegli inviti a matrimoni in cui dovremmo andare a condividere gioie che non sentiamo davvero nostre, ma sembrano pura formalità, dovute a conoscenze superficiali. Vediamo una reazione molto vendicativa del re, che distrugge gli averi ed uccide quelli che aveva inizialmente pensato di invitare. Placata l’ira, però, pare quasi aumentare la volontà di far festa del re, che prende una decisione abbastanza insolita, invece che trasformarla in una festa d’élite, la estende, paradossalmente, a chiunque, senza la minima selezione («tutti quelli che trovarono»), quasi che una simile scelta costituisse una ancora peggior ripicca rivolta a chi ne aveva rifiutato l’invito.
È interessante notare come il brano proposto, al contrario di quello di Luca (Lc 14,1a.15-24 ) veda un “finale a sorpresa”: Matteo, infatti, si sofferma su quanto accade ad uno dei commensali, che non ha indossato il “vestito della festa”: questi è allontanato in malo modo, nonostante avesse accettato l’invito.
Il re entrò per vedere i commensali e lì scorse un uomo che non indossava l’abito nuziale. Gli disse: “Amico, come mai sei entrato qui senza l’abito nuziale?”. Quello ammutolì. Allora il re ordinò ai servi: “Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti”. Perché molti sono chiamati, ma pochi eletti (Mt 22, 11-14)
Paradossalmente, è proprio una tale conclusione che ci aiuta a comprendere meglio perché chi, spesso, tendiamo ad escludere, anche solo inconsciamente, “ci passerà avanti nel Regno dei Cieli” (Mt 21, 31). Il commensale non aveva il vestito della festa, cioè non aveva compreso dove fosse stato invitato. Aveva frainteso quale fosse il contesto. Per intenderci: non si trattava di avere un vestito costoso, bensì adeguato alla situazione. Non si va allo stadio come si va in tribunale; non si va ad una matrimonio abbigliati come quando si fa ginnastica. Non bisogna confondere sobrietà e rispetto: una certa cura nel vestire trasuda attenzione per l’evento proposto e la persona che lo propone. Indossare un abito adeguato alla circostanza è simile a spruzzarsi un po’ di profumo: sono quei gesti d’attenzione volti più agli altri che a se stessi.
Sono i poveri stessi ad insegnarci una tale distinzione. I veri poveri non confondono gli ambiti. Sanno quando occorre un vestito elegante: basti pensare a come, in campagna, i nostri nonni o bisnonni, che avevano molto meno di noi, non rinunciavano a tenere con cura il “vestito della festa”.
Credo sia opportuno mantenere in parallelo ambedue gli aspetti: Dio chiama alla sua mensa nella libertà e nella responsabilità: chiama ciascuno, affinché risponda con la libertà che è propria dei figli di Dio. Chiama anche chi ci dà fastidio. Eppure, una volta conosciuto l’amore di Dio, non possiamo relegarlo all’ultimo posto, se c’è tempo, come un hobby. Cristo esige che la sua Parola in-formi (cioè dia forma) perché tras-forma (cambia) la nostra vita!
Rif: letture festive ambrosiane, nella II Domenica dopo la Dedicazione della Cattedrale, anno C (Is 25, 6-10 ; Rm 4, 18 – 25 ; Mt 22, 1-14)
Fonte: don Raffaello Ciccone, Parole Nuove
Fonte immagine: Pixabay
Per approfondire: Sul Leviatano