Il liceo Catullo non è solo una scuola di città: è anche un incrocio di strade, un’intera stagione della vita, un appuntamento fissato al volo, al buio di una sorpresa. Uno sguardo-a-due dopo il quale nulla di quello che è stato sarà più com’era prima. Perché ci si innamora ad un’ora qualsiasi, in un giorno qualsiasi, in un luogo qualsiasi. Qualsiasi cosa, poi, ci ricondurrà sempre là, esattamente in quell’attimo nel quale tutto ha avuto il suo inizio.
Il pomeriggio della luna (Aracne, 2016) è un ossimoro voluto, un quasi non-senso: di pomeriggio è il sole. Uno spaesamento intenzionale per dare l’intonazione alla storia di due ragazzi che già nel nome portano inciso il destino: essere l’uno per l’altro ciò che il loro nome significa. Riusciranno a comprenderlo solamente dopo essersi fatti la guerra a furia di sguardi e girasoli, e sarà il guadagno del loro viaggiare: non solamente fisico – un viaggio in treno sarà l’inizio di una rivelazione diventata rivoluzione – ma anche interiore, uno scavare in profondità, districandosi nel labirinto della loro memoria. Perché fallire, quando si è adolescenti, è stare male per non essere capaci di dare un nome alla propria mancanza, a quel desiderio d’essere amati che è forma-prima della felicità: «Tieniti le gatte morte, alle leonesse ci pensano i leoni». Una scritta sul muro: un mondo che crolla, una fessura che ingoia tutto.
E’ una sorta di piccola epica del quotidiano quella che l’autore inscena per costruire la scenografia alla sua narrazione: il mondo variopinto della scuola, la stagione degli amori, le prime cotte con le relative ustioni. Le piccole rivalse, le gelosie tra compagne di classe, gli sguardi furtivi. La vita reale, che è sempre più bella di quella immaginata: le canzoni di Tiziano Ferro, il Buon viaggio di Cesare Cremonini, la «teoria della serratura», le magliette griffate. Risa, burla e sghignazzi di chi vive un’età nella quale tutto può ancora capitare. Ma c’è anche tutto un mondo adulto che, pur senza volerlo, segna indelebilmente il destino dei protagonisti. La madre che muore quando Elio è bambino, rimane per lui il pegno pagato al bastardo per essere nato. Viaggiando verso il Sud-Africa all’indomani della maturità, una lettera lasciatagli dalla mamma prima di morire varrà come una sorta di liberazione: il vero esame di maturità. Il padre di Luna, invece, è scorticato dal dramma della disoccupazione: è uno dei momenti di più alta drammaturgia e bellezza dell’intera narrazione, è un vortice narrativo ed esistenziale che si tira dietro a strascico il destino di un’intera famiglia, quella di Luna. Per lei, sarà l’occasione per scoprire il significato del suo nome: «Se nascerà una bambina, la chiameremo Luna. Sarà magnifico, un giorno, poterle insegnare a guardare la luna, di pomeriggio». Entrambi i protagonisti arrivano da quegli sguardi adulti come da un paese: sono la loro Betlemme. A tenere accesa la speranza, che è poi un ricucire la storia, anche questa volta è la donna – già protagonista degli altri due romanzi di Marco Pozza, Penultima lucertola a destra e Contropiede –, colta nella sfumatura di donna-salvavita.
La luna di pomeriggio: quante volte, da bambina, i miei genitori si divertivano ad indicarmela lassù in cielo.
«Guarda la luna!»
«Vedo il sole, mamma. Non c’è la luna».
«Guarda laggiù, sopra la torre campanaria».
All’orizzonte c’era un disco quasi trasparente, soffuso che quasi si faceva fatica a vederlo. Non fosse stato per la forma, si sarebbe detto che era un cirro, una nuvola che stava uscendo di scena. Invece era proprio lei, la luna. Quasi oscurata dalla presenza del sole. Anche lei, lassù in cielo: anche se pochi s’accorgevano, intenti com’erano a guardare lui.
Di pomeriggio, la luna è la santa-patrona di tutte quelle cose che non si danno ad amanti di passaggio, ai cuori scontati. Lei, ma anche la rosa d’inverno. Tu mi dici: “La luna brilla di notte, la rosa sboccia a maggio. Sbagli gli abbinamenti!” Invece sono gli abbinamenti esatti, i tempi migliori per guardare con calma la luna, per sedersi di fronte ad una rosa. Quando scenderà la notte, saranno in tanti con il naso all’insù a fissare la luna, a raccontarsi l’amore. A maggio, tanti scenderanno nel giardino per cogliere una rosa.
È d’inverno, però, che la rosa ha più bisogno di essere guardata: è tremante, tutta indaffarata, meditabonda. Non è ancora certa che a maggio riuscirà a sbocciare. A dicembre, davanti a lei non c’è un filo di traffico: è tutta sola, tra neve e gelo. Fermati a guardarla; a maggio, quando nel roseto ci sarà traffico da bollino rosso, lei si ricorderà: ti sorriderà. Tu le hai dato fiducia quando non era che un ramo secco come tanti altri, le hai sussurrato “Sei fantastica” quando gli altri le passavano vicino incuranti, maledicendo magari le spine, che sono la sua pelliccia. Tu, invece, sotto una violenta nevicata, hai scommesso sul suo splendore e tutti ti hanno riso in faccia. Lei, a maggio, per quegli sguardi di dicembre, ti riconoscerà tra mille occhi curiosi: indispettiti ed egoisti. Ti sorriderà, alla faccia di chi, delle rose, è capace di scorgere la presenza solo a maggio.
Delle rose, a dicembre. Della luna, di pomeriggio.(M. Pozza, Il pomeriggio della luna, Aracne 2016)
Con l’escamotage del viaggio-in-treno, poi, è come se l’autore mettesse con il bavero al collo i suoi due giovani protagonisti, costringendoli alla verità del loro cuore: «Tutte le persone sbagliano, quelle belle sanno chiedere scusa: è questa la differenza. Elio è bello come il sole!» Viaggiando sullo stesso treno, con destinazioni diametralmente opposte, la vita presenterà il conto, dando loro il merito di non scappare dalla vera-presenza di quell’incontro: «Eravamo quelli giusti nel momento sbagliato». Una risposta giusta data nel momento sbagliato sarà una risposta sbagliata. Ecco che l’estate della maturità è anche l’inizio di ciò che l’autore affida alla fantasia e al buon-cuore del lettore. Gli basterà, con un’accelerata da batticuore e nessuna poesia, starsene ben nascosto dietro i suoi protagonisti nell’attimo in cui la vita tocca la vita: «C’è una cosa più terribile di non aver mai avuto un’occasione: è averla avuta e non essere stati capaci di coglierla». Nel camposanto, di fronte alla tomba nella quale è sepolta la madre di Elio, l’unica cosa che viene da scrivere è solo: «Luna, virgola, di pomeriggio». Ce n’è abbastanza per spegnere la luce. E sentire la voglia di rischiare la vita.
Ne Il pomeriggio della luna alla fine emerge anche l’altra faccia dell’autore che, negli anni, ha saputo farsi apprezzare per la sua voce pungente, colorata e dissacrante, mai banale. Questa volta, rischiando un attimo la penna e il suo destino letterario, ha abbandonato la terra-ferma dei suoi racconti evangelici per tornare a frequentare quel mondo che, cosa facile da immaginare, è il mondo-primo dal quale non nasconde di provenire lui stesso. La storia potrebbe anche essere un puzzle di quelle mille-piccole-storie che quotidianamente coglie nel suo peregrinare tra le strade d’Italia, anche la sua medesima storia: «Chi non vuole esserci, non c’è nemmeno se si siede accanto a te. Chi c’è, c’è anche quando credi non ci sia». Fosse vero, varrebbe come la più quotata delle certezze: che a rendere gloriosa la torre di Pisa è il fatto d’essere storta, senza per questo cadere. E’ storta-ma-non-cade: l’immagine di uno scrittore giovane che, lasciate tempo al tempo, mostrerà ben presto come il tenere i piedi dentro la storia degli uomini sia la fonte d’ispirazione più ardita, soddisfacente. Perché guardare la luna-di-pomeriggio sembra, a molti, un’inutile perdita di tempo. E’ di pomeriggio, invece, che la luna si mostra più fragile, più sola. Dunque più alla portata di chi, autore o lettore, va cercando la verità di sé.
Cercando le confidenze più intime.
Buona settimana!
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