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Forse che a valle, in città, le parole sono aria viziata, parole-viziate. Sarà che scalare la cima di una montagna significa porgere le spalle a tutto il resto, all’umanità intera. Aggiungo il fatto, per convinzione personale, che lo scalare una montagna non serva assolutamente a niente: il che mi rende il tutto ancora più avvincente, di sfida, l’eco di qualcosa di impossibile. D’estate la montagna è un richiamo, ancor più suadente per il fatto che in tanti c’improvvisiamo un po’ scalatori, avendo magari come unico primato un corridoio percorso a passo-veloce. Resta il fatto che, quando si vede sfidare da avventurieri, la montagna diventa perfida: «Passiamo per conquistatori di montagne, siamo in verità pieni di fallimenti, di stagioni affondate. Tutti gli alpinisti in terra di Himalaya sono stati più spesso respinti che favoriti» (E. De Luca). Quand’è il momento di ritirarsi serve la stessa dose di spirito di battaglia di quando si è prossimi alla cima.
Non tutti, però, ne sono capaci.
Simone Moro e Tamara Lunger sono la premiata-ditta dell’alpinismo di casa nostra. L’ultima loro sfida – dopo la prima conquista invernale del Nanga Parbat da parte di Moro, con Tamara fermatasi a settanta metri dalla cima – era quella di percorrere la lunga e difficile cresta della terza montagna della terra, il Kangchenjunga, in Himalaya. Una sfida ai limiti del possibile, una sorta di lotta alla sopravvivenza, l’ennesimo tentativo di far fare all’uomo un ulteriore passo in quella sua voglia-matta di scalare le altezze. La sfida s’è arrestata, la gloria non è stata raggiunta. La spedizione, a detta di tanti, è stata un fallimento. A detta di loro due, invece, è stata una lezione, l’ennesima, dalla quale quei due fortissimi scalatori trarranno tesoro: «Faremo tesoro di quanto abbiamo imparato questa volta sulla montagna, un po’ come è stato per il Nanga Parbat. È un obiettivo ambizioso, ma nulla è impossibile» ha commentato Simone nella sua pagina di Facebook. L’uomo delle alte-cime che celebra l’arte della resa sembra quasi un paradosso. Eppure, a pensarci, per poter celebrare la conquista di una vetta è necessario rincasare: conquistare una cima e non tornare più serve a ben poco. La discesa da una cima è dura, non serve a niente la gioia di averla raggiunta se poi non la si racconta: per raccontarla è necessario tornare. A scendere, il tempo pare ingigantirsi a dismisura. È che “arrendersi” ai più sembra verbo di fallimento, materia d’incapaci, grammatica di disfatta. Per chi frequenta le cime, invece, arrendersi è poter fare domani ciò che oggi non si è riusciti. Arrestarsi è darsi il lusso di ritentare, stare sotto la cima è guardarla per misurarla, studiarla. Non tutti ne sono capaci: scendere – quando tutti t’inviterebbero a tener duro e salire: “È lì, manca poco. Tieni duro” – è andare contro la corrente.
L’impresa mancata di Simone e Tamara è una cartolina meravigliosa per l’estate che avanza. È la stagione nella quale le spiagge s’affollano, s’invadono le autostrade, l’umanità diventa un formicaio che si pesta i piedi. Per alcuni è la stagione del silenzio: gli uomini sono degli animali capaci di parola, ma hanno capito che certe esperienze riescono a trasmetterle meglio con il linguaggio del silenzio. Per questo lo cercano, amano appartarsi, salgono verso le altezze. Da lassù il mondo pare tutta un’altra cosa, è una festa dello sguardo, una sorta di epifania laica. Lassù varrà bene il promemoria che dobbiamo poi scendere: «La discesa fa parte della salita, ti spetta, la devi eseguire con la stessa precisione. La maggior parte dei guai succedono in discesa» (E. De Luca). È la storia della tentazione: “D’ora in avanti è tutta discesa”. Come se andare in discesa fosse affare di poco conto. Di una cima mi piace la vetta, di chi scala amo la poesia del fallimento: posso coprirmi quanto voglio, la montagna mi denuderà sempre.

(da Il Mattino di Padova, 9 luglio 2017) 

@Foto-Archivio Tamara Lunger


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