Aquiloni

Quella ragazza era divenuta la sua inquietudine, dal giorno in cui lui, l’ex fidanzato Vincenzo Paduano, aveva decretato che accanto al nome di Sara avrebbe dovuto starci per forza un aggettivo possessivo dall’aspetto ambiguo: “mio/a”. Sara non era più una ragazza, era diventata “la-mia-ragazza”. Era rimasta tale anche dopo la fine del loro rapporto e questo aggettivo, a conti fatti, ha segnato la condanna a morte di Sara di Pietrantonio: essersi decisa che non era più un “aggettivo-possessivo” ma era tornata ad essere una ragazza libera. Scrisse Frank Hernert: «Colui che può distruggere una cosa, ha il pieno controllo di quella cosa». Ci sono uomini convinti che l’amore sia una cosa.
Quando l’efferatezza di un gesto si carica di dimensioni così imponenti, la tentazione è quella più a portata di mano: archiviarlo come il gesto di un pazzo – pazzo d’amore, anche -, relegandolo ad una qualche forma di patologia che ci aiuti a decifrarne la ferocia col guadagno di sentirci tutti più distesi. E se questo gesto, invece che pazzo – quindi nebuloso, fosco, ostico da decifrare –, fosse un gesto rischiarato da una lucidità sfolgorante? Il controllare è la conseguenza prima di una fiducia che viene a mancare: si controlla un detenuto perché si teme l’evasione, si controlla la benzina perché si ha paura di restare a piedi, si controlla un amore perché si teme qualche falla. Controllare, dunque, è verbo antitetico all’amare: amare è “fare-spazio”, accettare la sepoltura di certe attese, diminuire se stessi perché l’altro accresca se stesso. E’ capace di amore chi sa riconoscere che l’altro/a non è mio, che io non potrò mai essere il padrone della sua vita. Che dire “la mia ragazza” è frase-d’amore se dentro quell’aggettivo più che il possesso abita la complicità di un sogno; è un abbozzo di epigrafe se, al contrario, sa di razzia della libertà altrui. Nessuna creatura potrà mai diventare proprietà privata di qualcuno: l’amato non esiste perché io gli ho donato la vita, esiste per fare della mia vita una possibile occasione d’amore. “Con lui mi sento protetta”: quante volte, tra umani, si raccolgono confidenze così dense di cura. Sapersi protetti è l’esatto contrario del sapersi controllati: chi controlla non ama, o sta iniziando a non amare più. Chi protegge sa gioire nel contemplare i voli altrui. Controllare è far volare un aquilone sapendo che ce l’hai pur sempre in mano, amare è gustarsi l’altro nell’attimo in cui spicca il suo volo, tutto solo.
Anche i cattivi, riscoperta la bontà, ne decantano la bellezza: “Sai qual’è, qui dentro, la differenza tra me e tanti altri? – mi confida un detenuto in uno dei colloqui in carcere – Che a tanti basta uscire dal carcere, io invece voglio la libertà”. Uscire dal carcere, certe volte, non equivale affatto a diventare liberi: si può rimanere schiavi ad oltranza di chi, negli anni, ti ha venduto il controllo per amore, la carità per consumo, il servirti con il servirsi di te. Controllare è togliere vita alla vita, amare è lasciare che l’amato sia libero anche d’andarsene: se ritorna, quel viaggio di rientro avrà il nome dell’amore. E’ la Scrittura stessa, quella che i cristiani sono soliti definire “sacra”, a celebrare la superiorità del controllo sull’amore: non c’è gioia senza libertà. Libertà anche d’andarsene.
Il controllo sulle persone è una bastardata gagliarda di Lucifero: “E’ tuo/a, d’ora in poi fanne ciò che vorrai”. Mica stupido quell’infame: all’inizio il controllo lo si confonde con la cura, fa sentire protetti, importanti. E’ sulla distanza che lo Sbruffone si smaschera: quando decidi di non essere più suo, impazzisce. Ti toglie la vita, anche la libertà d’essere te stesso. L’amare, invece, è l’azzardo di Dio: a prima vista sembra non proteggerti come chi ti controlla, sembra quasi disinteressarsi da quanto ti lascia libero di diventare. Alla lunga, poi, s’annuncia in tutta la sua grazia: ci si ama perchè si è deciso di non annullarsi a vicenda.

(da Il Mattino di Padova, 5 giugno 2016)

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